domenica 1 marzo 2015

L'ottimismo di National Geographic



Domani sera, le tre Cavallette partiranno per il Kenya alla scoperta di alcuni tra i più bei paesaggi africani. Armate di curiosità e macchine fotografiche, vi racconteremo la nostra avventura più o meno in diretta, wifi permettendo.
Oggi viaggiare è facile per tutti, ma, come ho già detto, quello che fa la differenza tra un turista e un viaggiatore è lo spirito con cui si vive l'esperienza in un luogo nuovo.
Questo mi fa pensare agli articoli dell'unica rivista a cui mi sia mai abbonata: National Geographic. Ora vi sembrerà un post promozionale, ma voglio celebrare sul mio blog questa grande fonte d'ispirazione. Cos'ha di speciale? Articoli seri e interessanti insieme a foto spettacolari.
Tratta tutti gli argomenti che mi affascinano: scienza, storia e natura. Mi racconta luoghi e fatti attraverso le parole di grandi reporter che vivono esperienze in prima persona, avventurandosi dove altri non arrivano, calandosi nell'ambiente e nelle storie di cui scrivono e che fotografano, cercando di capire e approfondire il bene e il male del mondo in ogni suo aspetto. 
Questi giornalisti conservano lo spirito degli antichi esploratori, una curiosità senza pregiudizi, un'appassionata voglia di conoscere, il coraggio di portare alla luce anche la spazzatura sotto il tappeto. 

Descrivono imprese eroiche, scoperte epocali, invenzioni futuristiche, ma anche il nostro quotidiano. Mi hanno raccontato di chi abita nei pressi di una raffineria, chi pesca conchiglie con le mani, chi si trova in mezzo a una guerra, chi lotta per salvare un ecosistema, chi si inventa un mestiere, chi si mette alla prova, chi studia, chi distrugge e chi costruisce. Ogni articolo mi lascia qualcosa, mi fa riflettere o sognare.
Le macchine fotografiche dei migliori professionisti diventano gli occhi del lettore e sanno catturare sensazioni, narrare momenti. Certi scatti mi hanno impressionata, altri hanno ispirato i miei viaggi e mi hanno portata dove non sono ancora stata.
I reporter e fotografi del National Geographic lavorano spesso in condizioni estreme per documentare la vita nell'universo che ci circonda e riescono ad affrontare temi importanti senza scadere nel banale e nel retorico, spiegando con chiarezza le questioni più complicate, coinvolgendo il lettore anche quando trattano gli argomenti più ostici per i profani. La scienza diventa poesia quando è raccontata in questo modo, la storia un'avventura, la natura uno spettacolo prezioso.
Pubblicando reportage e inchieste sui grandi problemi del mondo, propongono le soluzioni possibili, analizzano le conseguenze di ogni strada percorribile, è evidente che credono in un futuro migliore. Io, spesso, non riesco a essere così ottimista sull'avvenire del pianeta perché ormai, noi umani, siamo diventati troppi e viviamo troppo a lungo. Pur con le migliori intenzioni, non esiste uno stile di vita a impatto zero in grado di sostenere oltre 7 miliardi di persone (che diventeranno 9 nel 2040). La coperta è semplicemente diventata troppo corta. Ogni cosa che compriamo, mangiamo, usiamo, buttiamo via, ogni nostra azione innesca una catena di conseguenze che, moltiplicata per il nostro numero esorbitante, assume una dimensione catastrofica. 
Continuiamo a vivere come se il domani non esistesse, invece arriverà presto e allora il pianeta ci presenterà un conto che non saremo in grado di saldare.
Poi sfoglio questa rivista centenaria e, accanto alle foto di vari tipi di inferno, trovo gli ultimi paradisi e leggo le storie di persone che dedicano le loro vite a salvarli, che siano aree marine incontaminate o le tradizioni di una tribù quasi estinta, che siano foreste, ghiacciai o bambini che sognano. Queste pagine dicono che ci sono ancora cose belle al mondo. 
La National Geographic Society finanzia da sempre progetti ambientalisti, benefici e di ricerca negli ambiti più disparati perché fondamentalmente è composta da un gruppo di ottimisti che continua a crederci. 
Nel numero di gennaio 2014, si celebravano i 125 anni della rivista con queste parole:
Era la sera del 13 gennaio 1888. Una violenta tormenta di neve si era appena abbattuta sulle Grandi Pianure mietendo centinaia di vittime, quando un gruppo di 33 scienziati ed esploratori si raccoglieva al Cosmos Club di Washington, D.C., sotto l’impulso di Alexander Graham Bell, l’ingegnere e inventore che solo pochi anni prima aveva brevettato il telefono.
L’obiettivo era fondare una società scientifica con la missione di “incrementare e diffondere la conoscenza geografica e promuovere la protezione della cultura dell'umanità, della storia e delle risorse naturali”.

Quell’incontro segnò la nascita della National Geographic Society, istituita ufficialmente il 27 gennaio. Nove mesi dopo, in ottobre, veniva pubblicato il primo numero del National Geographic Magazine.

Non si può pretendere in poche righe di dare l’idea di ciò che hanno significato questi 125 anni per il progresso dell’esplorazione, della scienza, della fotografia. Possiamo solo pensare alle decine di migliaia di persone che hanno contribuito con il lavoro, la passione, il sacrificio a un’indescrivibile impresa collettiva, lasciandoci in eredità un patrimonio di testimonianze di valore inestimabile.


Probabilmente anche la Society avrà degli scheletri nell'armadio, nessuno è perfetto né innocente. A me, però, piace credere in loro. Ringrazio i miei ex colleghi per avermi regalato i primi anni di lettura, facendola diventare un'abitudine grazie alla quale, ogni mese, riesco ancora a godermi il lato bello del mondo.

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