sabato 20 maggio 2023

ALeRT, le cose che non vi ho detto - parte 1

A settembre spero di riuscire a tornare dai ragazzi di Alert a Sumatra e, rileggendo il post sulle settimane con loro, mi sono resa conto di non aver raccontato tante cose di quell'esperienza. Mancava la connessione a Internet quindi alla fine ho pubblicato solo un riassunto, mentre il mio diario personale contiene tanti momenti indimenticabili. Ne ho condivisi alcuni con il pubblico della raccolta fondi, ma tanto è rimasto solo per me. 

Oggi, però, voglio rivivere quel periodo raccontandovi qualche retroscena, così sarete preparati al mio ritorno tra i protettori del Way Kambas. Copio dal taccuino scritto a penna a quel tempo, aggiungendo solo qualche nota e sistemando la punteggiatura per renderlo più leggibile, quindi perdonatemi se i pensieri saltano di palo in frasca come i macachi, ma le pagine sono tante e dovrò pubblicarle in quattro post. Eccovi la prima parte della storia.


13 maggio 2017

All'aeroporto di Bandar Lampung, è venuto a prendermi Hari con un gran sorriso. A me pare che in Indonesia sorridano tutti e abbiano dei sorrisi stupendi. Il mio amico, dietro le transenne degli arrivi, agitava scherzosamente il cartello ufficiale con il mio nome. Ci siamo abbracciati, sembra ieri che ci siamo conosciuti e salutati, invece, sono già passati quattro anni. Con lui c'era Ratno, giovane autista anche lui membro di Alert, che ha guidato sicuro attraverso l'unica grande città della regione, poi per le strade piene di buche di villaggi raccolti intorno all'unica via asfaltata e poi svoltando verso il parco nazionale Way Kambas fino a destinazione: l'ecolodge Satwa a pochi passi dall'ingresso del parco. Durante il tragitto, Hari ha tirato fuori le nostre foto insieme sul vulcano Anak Krakatau del 2013 con il TdC e quattro anni sembrano averci un po' prosciugati: io lontana dalle foreste e lui con una figlia che cresce insieme alle spese.

Mi ha dato subito una buona notizia: dopo le prime due notti a Satwa, potrò trasferirmi da una famiglia del posto per risparmiare e potrò trascorrere anche un paio di notti nella foresta. Appena arrivata al lodge, prima ancora di farmi la doccia, sono uscita con la macchina fotografica perché il sole stava calando. Il giardino è ancora più bello di quello a Bali, con alberi meravigliosi, pieno di rane e scoiattoli, con l'erba così fresca e morbida che non resisto e giro a piedi nudi. Più tardi mi sono affacciata sulla cucina per spiegare la mia dieta vegana e ho trovato tre simpatiche signore che sembrano una matrioska: stessa faccia, stessa pettinatura, stessi abiti con il grembiule, ma una è piccola, una media e una alta e grossa.

la sede di Alert
Stamattina nell'ufficio di Alert, che è una casetta in un vicolo del villaggio, finalmente ho conosciuto di persona l'uomo col quale ho scambiato tante mail per avere questa opportunità: Marcell, il fondatore di Alert che ha fatto da garante per il mio visto di volontariato. È un ometto minuto, in maglietta e pantaloncini, con i capelli neri raccolti in una coda e la faccia simpatica. Non gli daresti cento lire a giudicarlo dall'aspetto semplice, invece è uno stimato esperto di fauna selvatica e viene chiamato come consulente in tutto il Sudest asiatico per progetti di protezione degli animali e salvaguardia dell'ambiente. Mi ha presentato almeno dieci collaboratori nel giro di pochi minuti, e abbiamo dedicato la giornata a stendere un elenco delle miei attività nei prossimi giorni. Secondo il piano, lavorerò soprattutto con Dan, uno studente universitario cicciottello che ride sempre, parla un ottimo inglese ed è l'informatico dell'associazione. È stato lui negli ultimi tempi a lavorare al sito web per Alert, fornendogli una grafica professionale e impostandolo per essere all'altezza dei progetti sul campo. Il problema è che i contenuti, importati dal primo e scarno tentativo di blog, sono fermi al 2012, quindi il mio lavoro in queste settimane sarà seguire i ragazzi sul campo per aggiornare i contenuti, arricchendo le pagine di informazioni e caricando foto e video. Documentare e raccontare: mi hanno chiesto di fare ciò che più mi piace. 
Per raccogliere materiale, idee e foto, mi porteranno a visitare i luoghi dei loro progetti: una casetta su un albero a venti metri da terra che serve da osservatorio per gli uccelli, ma ha la scala divorata dalle termiti e hanno bisogno di fondi per restaurarla; un laghetto artificiale che avevano riempito per utilizzarlo come riserva d'acqua nella lotta agli incendi dolosi che devastano la foresta, ma si prosciuga nella stagione secca, proprio quando serve di più, perciò hanno bisogno di far scavare un pozzo profondo con una pompa, magari alimentata da un pannello solare, che riempia il laghetto in ogni stagione; hanno installato nella foresta nove video-trappole, telecamere con sensori che attivano la ripresa quando passa un animale, e sono riusciti a ottenere filmati meravigliosi anche di tigri con i cuccioli, rinoceronti, orsi, elefanti selvatici, lo strano animale che si chiama pangolino e io credevo esistesse solo sull'enciclopedia degli animali della De Agostini che sfogliavo da bambina, un felino chiamato marble cat che non so come si chiami in italiano, e perfino il rarissimo leopardo nebuloso, una specie scoperta da poco più di un decennio qui e nel Borneo. Questi progetti hanno assorbito tutte le loro risorse perciò hanno bisogno sia di volontari che di fondi e la mia idea di puntare sull'eco-turismo non è per niente campata in aria. Già Alan, il proprietario degli ecolodge, stava valutando di adibire a campeggio una parte del terreno su cui Alert lavora alla riforestazione. Marcell, Dan e io abbiamo parlato di questo periodo, ma anche del futuro, confrontando le mie idee e le loro, scoprendo di essere in sintonia su molti argomenti. Poi, siccome ci siamo trovati bene a chiacchierare, siamo finiti a parlare un po' di tutto, dal clima alla politica, dall'Italia all'Indonesia, dalla frutta alla birra.

14 maggio 2017

Se le mie prossime giornate saranno come questa, non mi basteranno dieci quaderni per conservare tutto. Era cominciata in maniera tranquilla, poi si è trasformata in un'esperienza memorabile.

La mattina alle nove, Dan viene a prendermi su un pick-up guidato dal giovane Yahya, che si rivelerà un grande pilota di fuoristrada. Con noi ci sono anche Eka, la ragazza che si occupa della contabilità di Alert e degli eventi promozionali, e Budi, un ragazzo magro magro, col sorriso allegro e gli occhi vispi dei giovani entusiasti. In teoria, avremmo semplicemente dovuto presenziare alla visita di un grosso gruppo di studenti universitari all'interno del parco nazionale, durante la quale si spiegavano i vari progetti legati alla protezione della foresta e poi si passava la mattinata a piantare alberi insieme a loro. All'inizio, mi stavo un po' annoiando perché mi trovavo nel bellissimo Way Kambas ed ero costretta a star ferma ad ascoltare discorsi istituzionali in indonesiano. Finalmente, è arrivato il momento di piantare gli alberi e ci siamo sparpagliati per il prato con dozzine di giovani arbusti tra le mani. Stavo ancora coprendo la buca del mio primo alberello, quando Dan riceve una telefonata: c'è un incendio nella zona ovest del Way Kambas. Lasciamo gli studenti al personale del parco e corriamo via. Yahya mi chiede se voglio essere lasciata al lodge. Nemmeno per sogno, rispondo, lui sorride e accelera. Mi pare la scena di un film. Usciamo dal parco, arriviamo all'ufficio di Alert dove lasciamo Eka e prendiamo la jeep del soccorso antincendio, portando con noi bottiglie d'acqua e frutta per la squadra che ci raggiungerà con un'altra auto dal centro di riforestazione ovest. A occuparsi degli incendi sono tutti volontari, in totale appena una dozzina di uomini e ragazzi che coprono lunghi turni di sorveglianza e intervento. Spesso, però, gli abitanti dei villaggi intorno al parco si offrono di dare una mano e infatti, lungo la strada che diventa presto uno sterrato, carichiamo sul tetto insieme a Budi altri quattro uomini. Per raggiungere il luogo dell'incendio ci vuole circa un'ora, il parco è enorme e le strade peggiorano quando ci si allontana dall'ingresso principale dedicato ai turisti. Poco prima di rientrare nei confini del Way Kambas, ci fermiamo a casa di un altro volontario che, per la sua posizione strategica, è usata come magazzino per gli estintori che ci affrettiamo a caricare sulla jeep. Nessuna attrezzatura moderna, questi estintori sono taniche che si indossano come zaini sulla schiena e spruzzano acqua da una pompa manuale. La squadra calza stivali di gomma da giardinaggio, cappellini al posto degli elmetti, un signore addirittura un cappello di paglia che pare un vaso rovesciato, un ragazzo, almeno, si è tenuto in testa il casco del motorino. Davvero affrontano gli incendi così?

Ci inoltriamo nella foresta, con Yahya che fa del suo meglio per non far volar via dal tetto i volontari, ma incontriamo voragini profonde scavate dalla stagione delle piogge che rallentano la marcia, sassi che ci fanno ballare, erba alta fino ai finestrini. Attraversiamo una zona di grandi prati, risultato di precedenti incendi ed è in aree come quella che Alert pianta nuovi alberi. Ora che la vegetazione è bassa, appare chiaramente all'orizzonte la colonna di fumo dell'incendio. Per qualche minuto, quella vista ci toglie la voglia di parlare e io penso che questi uomini hanno un gran coraggio e una grande passione. Avvicinandoci, scopriamo che l'incendio è composto da diversi roghi più o meno isolati e si è già lasciato dietro ampie macchie nere di terra bruciata. Ci fermiamo a poca distanza dalle fiamme e, appena Yahya spegne il motore, la cosa che più m'impressiona è il suono che sento. Pensando a un incendio, immaginiamo sempre le lingue di fuoco, il fumo, il calore, forse anche l'odore, ma oggi ne ho conosciuto la voce. È un suono terrificante, un crepitare che riempie l'aria in ogni direzione e ti fa sentire circondato dal pericolo. Non un sussurro, l'incendio ci parlava ad alta voce, ci minacciava e, a ogni folata di vento, scoppiava a ridere sollevando fiamme dove un attimo prima c'era solo un filo di fumo. Guardavo i ragazzi imbracciare gli estintori e allontanarsi dalla jeep. «Tu resta vicino alla macchina» mi ha detto Dan, prima di tirarsi il foulard sul viso e correre via con gli altri. Rimasta sola, sono uscita e sono stata investita da una ventata di fuliggine. Mi sono arrampicata sul tetto della jeep e ho cominciato a fotografare e filmare quel gruppetto striminzito di eroi che andava a spegnere i roghi uno a uno. Guardavo loro, guardavo la foresta, mi passavano per la mente mille pensieri. Nel frattempo è arrivata la seconda squadra con un'auto e due motorini, e una nuvola di passaggio ha dato un piccolo aiuto scaricando una spruzzata di pioggia. Domata la prima metà dei roghi, c'è stata una pausa per bere, mangiare una banana e qualche biscotto. «State tutti bene?» ho chiesto scendendo dal tetto. Sono così abituati a infilarsi negli incendi senza protezioni che la mia domanda gli fa tenerezza e un minuto dopo ci scherziamo su. Ripartiamo verso l'altro fronte del fuoco che appare subito più violento perché l'aria diventa liquida e increspata di onde per il calore. Si ripete la scena degli uomini che partono per la battaglia contro le fiamme e io che mi arrampico sul tetto. 

Questa volta, però, ascolto qualcos'altro oltre alle piante che bruciano. Sento il barrito di un elefante. Lo sento di nuovo provenire dagli alberi. Mi spezza il cuore perché mi fa pensare al grido del capo che spinge il suo branco a fuggire. Yahya sta tornando alla jeep, gli chiedo se l'ho sentito davvero e lui mi guarda come per scusarsi di avermi portata lì. Non dimenticherò mai lo strazio di quel barrito.
Più tardi Dan mi racconterà che, quando soffia un vento forte, le fiamme si muovono così in fretta che nemmeno gli uccelli hanno scampo e gli è capitato di trovarne carbonizzati, come pure cerbiatti e altri animali. Per fortuna oggi la brezza è leggera e discontinua, gli elefanti sono salvi grazie a questa manciata di uomini che, spento l'ultimo focolaio, torna alle auto ridendo e scherzando. Quelle che per me sono state ore spaventose, qui si chiamano "la solita domenica". Sono i bracconieri ad appiccare la maggior parte degli incendi dolosi, lo fanno per stanare gli animali e catturare uccelli rari. Non sono mai stata realmente in pericolo, tuttavia il mio battesimo su questo campo di battaglia è stato emotivamente doloroso. Non abbiamo idea, noi occidentali, di cosa accada davvero nelle foreste a rischio, di cosa significhi proteggerle di persona. Io l'ho scoperto all'improvviso seguendo una dozzina di uomini e ragazzi con equipaggiamento inadeguato che si gettavano tra le fiamme per dare una possibilità a quel branco di elefanti. Ero senza fiato e cercavo di nasconderlo temendo che non mi avrebbero più portata con loro se mi fossi mostrata sconvolta, ma la serenità di questo gruppo di guerrieri così abituati alla lotta per la foresta mi ha tranquillizzata presto.
Sulla via del ritorno, ci siamo fermati al più vicino centro riforestazione di Alert, ce ne sono quattro nel parco. Dan mi ha detto che è bellissimo di notte, si vedono tantissime stelle e una volta, che c'era luna piena, hanno giocato a carte fino all'alba. Non vedo l'ora che mi portino con loro in notturna. 
Ci rilassiamo e aspettiamo che due amici ci portino il pranzo anche se sono le quattro del pomeriggio. Arrivano pacchetti di cibo per tutti, per loro pollo e pesce, nel mio trovo riso, verdura e tofu fritto. Quasi mi commuovo perché con tutto quello che è successo si sono ricordati che io sono vegana! Ci prepariamo il caffè, Budi prende la chitarra, l'atmosfera si rasserena, il sole comincia a calare e intorno a me sembra tutto d'oro. 
Qualcuno comincia a tornare a casa, poi andiamo via anche noi. Per loro, è stata una giornata come tante – ventisette incendi da gennaio – io, invece, ho la testa e il cuore che traboccano. Mi dicono che sono stata brava. Io? Sì, perché non hanno avuto bisogno di preoccuparsi per me, non mi sono cacciata nei guai complicando la situazione, non mi sono lamentata per il caldo, lo sporco, la jeep che saltava sulla strada. Mi viene da ridere, ma sono contenta perché adesso mi sento parte del gruppo. 
Fa buio mentre arriviamo al nostro villaggio e Marcell telefona per dirci che in ufficio ci hanno preparato la cena e vogliono sentire com'è andata. Il tempo di mangiare e Dan si addormenta sul pavimento della veranda. Sono quasi le dieci, quando Yahya mi riporta al lodge in moto, ma mi pare mezzanotte. Mentre scarico le foto sul computer, mi butto sotto la doccia per levarmi di dosso la fuliggine. È stata una giornata incredibile.

15 maggio 2017

Oggi Marcell mi ha salutata, è partito per il Borneo dove sta seguendo un nuovo progetto di riforestazione. Non sa se tornerà prima della mia partenza, così mi ha affidata a Dan che è il suo braccio destro. I ragazzi di Alert con cui lavoro ogni giorno sono stupendi. In amministrazione, cioè nella stanzetta accanto alla sala che io e Dan usiamo come ufficio, ci sono Eka ed Eni, due ragazze molto diverse tra loro, ma entrambe divertenti nei momenti di pausa quanto serie e diligenti sul lavoro. Eka è la contabile esperta e severa che cura ogni centesimo speso nei progetti e per il personale, facendo piani a lungo termine con i pochi e altalenanti fondi a disposizione. Si occupa anche delle relazioni di Alert con l'ente del parco nazionale perché è la più diplomatica tra i ragazzi. Come tutti, però, ricopre ogni ruolo sia necessario e non si tira indietro se c'è da andare al mercato o piantare arbusti. Ha dei bellissimi capelli neri, lunghi, che quando fa troppo caldo lava nell'acquaio nel cortile sul retro dell'ufficio e ha un portamento sempre slegante anche se indossa sempre canotte colorate e pantaloncini. Mi piace molto e a lei piace conversare con me per far pratica con l'inglese. Eni è più giovane, musulmana con il velo, ma tutt'altro che timida e chiusa, ama cantare, però con lei ho poco a che fare nelle mie giornate. Budi e Yahya sono membri della squadra antincendio, gli uomini d'azione sempre pronti a intervenire, e nel frattempo sbrigano commissioni per tutti. Marcell mi ha detto di chiedere a loro per qualunque cosa mi serva, dalla lavanderia ai passaggi in moto se voglio andare da qualche parte. Penso a come la nostra tv ci racconti che l'integrazione è difficile, che le diverse religioni non si parlano, anzi, si fanno la guerra, a sentire e leggere certe cose si finisce per credere che la pace sia possibile solo dove l'una o l'altra parte sono state sconfitte. E invece passeggio in un villaggio sperduto dove cristiani, musulmani e animisti condividono il motorino per andare al mercato a fare la spesa, pranzano attorno a grandi tavolate e, come in Alert, lavorano e vivono insieme senza problemi. Perché noi siamo così indietro rispetto a loro? E ci definiamo civili.

Eka mi ha trovato una stanza in affitto a casa della signora Titin che vive sola con un figlio neonato e quando deve andare al lavoro – è impiegata nell'ufficio del parco nazionale – viene un'altra signora a prendersi cura del piccolo. La signora Titin è alta e robusta, ma canta dolci ninna nanne e si muove per la casa come un uccellino. Mi prepara colazioni più che abbondanti che impacchetto e condivido con i ragazzi quando arrivo in ufficio, mi fa il bucato – che non vuole farmi pagare, ma le nascondo i soldi in casa – e mi chiede di rientrare prima delle nove di sera così chiude la casa e va a letto tranquilla.

Rivedo i diversi alloggi dove ho dormito in questi due mesi e mezzo: prima il bellissimo ecolodge di Bali; poi c'è stata quell'orribile parentesi a Seminyak da dimenticare; a Ubud ho cambiato quattro stanze, andando a cercare le sistemazioni più economiche, e ho trovato la famiglia di Atiiku che mi ha fatto vivere un impagabile periodo da vera balinese; in Sri Lank con il TdC abbiamo girato diversi alberghi; di nuovo sola a Kuala Lumpur avevo il bagno trasparente e la vista sui grattacieli illuminati. E ora sono qui.

la mia stanza dalla signora Titin
Sumatra è molto più povera e arretrata rispetto a Bali, questo villaggio alle porte del parco ne è la prova, ma mi piace tanto perché le case sono tutte a un solo piano, perché solo le facciate sono intonacate e dipinte con colori vivaci, solo le verande sono piastrellate e decorate, mentre gli altri lati della casa sono in cemento grezzo e mattoni. Mi piace la via principale che non ha nemmeno un nome – se ci clicchi sopra in Google Maps compare proprio la scritta “strada senza nome” – e tutti i vicoli che si diramano a destra e a sinistra per finire nel verde sono circondati da casette e animati da bambini e galline che corrono dappertutto. Mi piacciono i giardini fioriti e i negozietti a una sola vetrina. Però non è una cartolina, mancano tante cose. Spesso la linea elettrica ci lascia senza corrente e la signora Titin rinfresca il figlioletto con un ventaglio, in attesa che il ventilatore si riaccenda. Un bagno con doccia è una rarità, l'acqua calda ancor di più. Qui non ho nemmeno il lavandino. Mi sto abituando a lavarmi con una tinozza e una sorta di pentolino di plastica: mi metto lo shampoo, poi mi verso l'acqua in testa, mi insapono e poi mi verso l'acqua addosso, o nelle mani se mi sto lavando il viso o i denti. Ho impiegato qualche giorno a trovare la posizione e capire la tecnica migliore per farmi la doccia in questo modo. È scomodo, ma non è certo impossibile.

Oggi sono andata al mercato con Budi e Dan che insieme alla spesa per cucinarci i pasti in ufficio, hanno comprato due angurie dicendomi: «Sono per te, hai detto che ti piacciono tanto.» Poi ci siamo fermati in paese perché Dan voleva farsi tagliare i capelli. Gli ho scattato una foto mentre era sulla poltrona con il parrucchiere che gli rasava la nuca, ridiamo un sacco per le foto sceme.


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