sabato 10 giugno 2023

ALeRT, le cose che non vi ho detto - parte 3

Penultima puntata del mio diario 2017, un'altra notte nella foresta, momenti teneri e scherzi. 

20 maggio 2017

Ogni tanto anche in ufficio manca la corrente, come dalla signora Titin. È che salta nell'intero villaggio e tutti si fermano ad aspettare, se va bene solo qualche ora, che torni. Per paura di perdere il lavoro fatto, salvo i file ogni cinque secondi. Il mio laptop comincia a dare segni di vecchiaia, la batteria si scarica in dieci minuti quando non è alimentata via cavo, la scheda di rete inizia a dar problemi nel connettersi ai wi-fi (quanti ne ha conosciuti in questo viaggio). Mi sa che, appena me lo potrò permettere, dovrò mandarlo in pensione e sostituirlo. Mi dispiace, ci sono affezionata, compagno di tanta scrittura in tanti luoghi. Senza corrente, si spengono i due ventilatori che rinfrescano l'ufficio e cominciamo a sudare. Continuiamo a lavorare finché durano le batterie dei laptop, poi ci arrendiamo. Ci sediamo sul pavimento in cerca di un po' di fresco, parliamo, giochiamo a carte. Le condizioni di vita sono queste, che vuoi farci?

i ragazzi fanno i compiti per me
Mi sono portata avanti col lavoro alla vecchia maniera: ho distribuito ai ragazzi carta e penne e ho chiesto loro di rispondere a due domande che userò per descriverli sulla pagina "Our team" del sito. Si sono messi tutti intorno al tavolo a scrivere, il bello sarà poi tradurre in inglese. Le due semplici domande erano: cosa significa Alert per te? e cosa ti auguri per il futuro di Alert? Hanno scritto con molto impegno. Ero sicura delle due ragazze, ma anche i ragazzi sono stati bravissimi, hanno preso la cosa molto sul serio anche se sono più uomini d'azione. Dopo, li ho fotografati uno per uno accanto al logo dell'associazione appeso all'ingresso dell'ufficio, si sono fatti belli per gli scatti.

La notizia bellissima del giorno è che lunedì si torna nella natura selvaggia. Passerò un'altra notte nella foresta, in una diversa zona del parco, per poi raccontare un altro dei centri Alert sul sito. Evviva!

23 maggio 2017

Questi sono un'ispirazione per me: Dan, Hari, Eka, Budi, Yahya, Eni e tutti gli altri che ho incrociato ai cambi turno. È bello che siano tutti giovani che si impegnano per il futuro della loro terra, che amano la foresta dove sono cresciuti e vogliono conservarla anziché arrendersi e cercare un lavoro migliore in città o all'estero. Dopo i primi due giorni non ho più incontrato Hari perché lavora con un'altra squadra, ma ci mandiamo messaggi. Sto scrivendo loro una lettera per salutarli l'ultimo giorno, è questo che so fare, scrivere. Scrivo resistendo al sonno e sono solo le nove di sera, ma arrivo da due giorni intensi e solo un'ora fa sono tornata alla mia camera.

Ho passato la notte in un'altra zona della foresta, nel centro Alert di Susukan Baru. Questa volta si sono unite a noi anche le ragazze, così non ero l'unica donna sul campo com'è stato finora.

pronti a partire
Adesso sono anche piena di lividi, oltre ai graffi delle piante. Per raggiungere Susukan Baru, abbiamo preso il pick-up, Yahya al volante, Dan accanto a lui, e io ho fatto il viaggio nel cassone con Eka, Eni, Budi e la scorta d'acqua Nel cassone di un pick-up si balla più che sulla jeep e, siccome è tutto di ferro, a ogni buca si prende una botta tremenda, ed ecco spiegati i lividi. 
Prima di inoltrarci nel parco, ci siamo fermati al mercato a fare provviste per la cena e, com'era già successo, le donne ai banchetti mi chiedevano di farsi fotografare con me. Non si vedono molti turisti stranieri da queste parti e mi sentivo un'imbarazzata celebrità. La frutta e la verdura hanno colori e profumi magnifici qui, mi sarei comprata tutto, ma saremmo stati fuori solo una notte e sono stata brava.
Sul lungo sterrato tra le piantagioni di frutta, tenevo un foulard sul viso per non respirare la polvere, ma appena entrati nel parco l'ho tolto per riempirmi del profumo degli alberi. Era una giornata nuvolosa, è caduta un po' di pioggia, perciò niente tramonto per me quando siamo finalmente arrivati.

La capanna di Susukan Baru è più piccola e spoglia di quella a Bambangan. Dan ha portato un paio di amache e, mentre le appendeva con i ragazzi, io e le ragazze siamo andate a lavarci e cambiarci. La “doccia” si fa al pozzo in fondo a un sentiero che parte dalla capanna e sparisce tra gli alberi. Lavarsi qui è ancora più esotico della tinozza: mi insapono, tiro su il secchio dal pozzo e mi verso sulla testa l'acqua fresca che arriva dal profondo della terra. La doccia più bella e rinfrescante della mia vita! Il mio asciugamano era appeso al ramo di un albero, come pure lo zainetto con il necessario per lavarmi. A farmi luce, la mia torcia sul ramo accanto. È stata una doccia mistica, in mezzo alla foresta, lontano dalla capanna, in solitudine e quasi al buio. Magnifico!

I miei amici – dopo tanti giorni d'avventura e alla seconda volta che si dorme insieme penso di poterli chiamare così, e poi son già due giorni che si dicono tristi per la mia partenza – si sono riuniti sul... come lo chiamo? Divano gigante di bambù? Be', è una specie di piattaforma con spalliera dove ci si siede in tanti. Insomma, lì abbiamo mangiato un ananas delizioso e scherzato sul fatto che io scrivo tutto, se qualcuno fa una stupidaggine o una figuraccia, la frase con cui lo si prende in giro è: «Ora Simona ci scrive un articolo!»

Budi - gli davo diciotto anni, invece ne ha ventinove e una figlia di cinque - ha preso la chitarra, ha suonato una ballata lenta e abbiamo smesso di parlare. La musica e qualche stella comparsa tra le nuvole hanno portato via tutti, ognuno nei propri pensieri.

Alle otto, abbiamo cucinato insieme sul fuoco ed è una cosa che mi diverte molto. Riso e pollo per loro, riso e verdure per me. Dopo cena, sono arrivati altri tre ragazzi. Eka ed Eni sono salite al piano di sopra, i ragazzi si sono messi a giocare a carte, io mi sono sdraiata nell'amaca (o sull'amaca?) a scrivere sul mio quaderno. Alla fine, ci ho dormito, era comodissima. Ho cercato di addormentarmi senza farmi distrarre dalla vita intorno a me, questa volta. Dovevo riposare perché il mattino dopo non sarei tornata a casa con le ragazze. Dan mi ha invitata a partecipare a un turno di pattuglia lungo i confini del Way Kambas. Potevo rifiutare?

Alle 2 tutti dormivano al piano di sopra. Io, nell'amaca in veranda, mi sono svegliata per andare in bagno, credendomi sola, invece ho trovato Yahya ancora alzato. Stava seduto ad ascoltare musica dal cellulare, a lume di candela, a pochi passi da me. Gli ho chiesto come mai non dormisse ancora. «Non posso, pensieri» mi ha risposto. Fatica con l'inglese, quindi ho sempre l'impressione che voglia dirmi di più, ma non riesce a sfogarsi come ha fatto Eka. Devo sembrare una buona confidente a questi ragazzi, forse perché sono più adulta, anche se, a parte Eni che ha ventidue anni, sono tutti intorno ai trent'anni, non bambini. Io e Yahya abbiamo condiviso una sigaretta, poi l'ho pregato di sforzarsi di riposare perché l'indomani saremmo andati di pattuglia. Lui ha ripetuto che non riusciva a dormire, allora gli ho domandato se stesse bene: «Se domattina non te la senti, vai a casa con le ragazze, io vado con Dan e Budi», ma lui «No. Io vado dove vai tu.» Una frase che per il tono, e forse per la luce della candela, mi ha fatto sentire in colpa. Sembrava che quel ragazzo sentisse la responsabilità per la richiesta di Marcell di occuparsi di me mentre è via, di tenerci tutti al sicuro: io sono quella che li aiuta gratuitamente, donna per giunta, e lui il più forte dei ragazzi e il migliore nella guida su queste piste. Ho avuto la conferma che Yahya portasse questo peso la mattina dopo, quando ho scoperto che non ha mai chiuso occhio. «Ho fatto la guardia» mi ha detto a colazione.

Yahya che fa il duro la mattina, ma non ha dormito

Abbiamo lasciato le ragazze a casa e Yahya ci ha portati al confine del Way Kambas. Con noi c'erano anche due dipendenti del parco, di quelli onesti e appassionati. Pioveva e il pick-up si è impantanato, segno che il ragazzo non era lucido perché non sbaglia mai una manovra.  Io sono scesa con gli altri per aiutare a spingere e mi son presa una sassata in faccia dalla ruota che slittava. Un altro segno per la mia collezione di cicatrici. Liberato il pick-up, Dan ha mandato Yahya a riposare, tanto il giro di pattuglia si fa a piedi. Lui ha protestato, ma Dan è stato irremovibile e alla fine il nostro miglior pilota se n'è andato via arrabbiato. L'avremmo chiamato nel pomeriggio per venire a riprenderci.

Le ronde come questa, lungo il perimetro del Way Kambas, servono a scovare e distruggere le trappole piazzate dai bracconieri. Inoltre, si rimuovono, facendoli a pezzi con la motosega, i ponti abusivi che quei criminali costruiscono per entrare illegalmente nel parco attraverso il sottile canale che lo separa dai villaggi circostanti. 
rimozione ponte abusivo
Questa, per me, è stata l'esperienza più forte perché non ho solo osservato, come per l'incendio, ma ho partecipato. Abbiamo abbattuto tre ponti, diverse scale e trappole, abbiamo trovato perfino una condotta abusiva che rubava al fiume protetto l'acqua per irrigare i campi, quando è concesso usare solo quella del canale. Tre ore di marcia sotto la pioggia e il sole, l'umidità che non ci faceva respirare, il fango che rendeva scivolosi i tratti in salita e discesa. Una breve pausa per il pranzo lungo il percorso, poi Dan ha ripreso ad aprire il sentiero con il machete. 

La camminata è stata estenuante: l'umidità ci incollava i vestiti addosso e i capelli alla faccia, ma dovevamo tenerci maniche e pantaloni lunghi per non graffiarci troppo con le piante. Nei tratti di foresta più fitta mancava quasi l'aria. Pensavo ai primi esploratori che si facevano strada in questa giungla tropicale senza nemmeno sapere dove stessero andando e cosa avrebbero trovato.
Nel tardo pomeriggio, soddisfatti per aver ripulito un buon tratto del confine, siamo arrivati al capolinea, uno dei casotti dei ranger, dove ci siamo concessi una merenda in attesa che Yahya venisse a prenderci. Eravamo stremati. Ci siamo cambiati gli indumenti fradici di sudore, pioggia e fango e abbiamo preso un caffè in veranda. 
Mentre riprendevamo fiato, stravaccati sulle panche con le gambe allungate e le braccia penzoloni, ho notato nell'erba una grossa lucertola gialla che giocava – o forse lottava, o forse tentava un accoppiamento – con una piccola lucertola grigia. Sforzandomi di alzare un dito, le ho indicate a Dan. Ha sollevato la testa con immane fatica, però era curioso, e ha detto: «Prendi la macchina fotografica.» Ma io, più distrutta di lui, ho risposto: «Per meno di una tigre non mi muovo.» Abbiamo riso tutti, anche se perfino ridere era uno sforzo.


Budi, io e Dan alla fine del giro



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