domenica 16 giugno 2019

Compere, per cominciare


Gli abiti da escursione nella giungla non servono più e sono accartocciati in un sacchetto in fondo alla valigia insieme a fango, sudore e bei ricordi, perciò la prima giornata a Ubud comincia con una tappa in lavanderia. Svoltato l'angolo del nostro vicolo ce n'è una piccina all'interno di un cortile dove ci pesano la biancheria e paghiamo meno di 50 centesimi al chilo per averla lavata e stirata la sera stessa. Ci torneremo a turno nei giorni successivi e per lo stato pietoso dei nostri indumenti, già immaginiamo di venir soprannominate “le zozzone”, ma avremo le valigie più ordinate e profumate del volo di ritorno.
Indossati sandali e canotte, ci dirigiamo al famoso mercato di Ubud. Il cuore è un edificio in muratura con portici e balconate aperti su un cortile centrale, ma le bancarelle si estendendo anche al di fuori, invadendo i vicoli di tutto il quartiere con merci colorate, odori e voci. Qui comincia la nostra ricerca dell'atmosfera tipica balinese ed è tra oggetti d'artigianato, tessuti leggeri, pacchianate per turisti e cibi esotici che ci inoltriamo in questo labirinto affollato come un formicaio, emergendo di tanto in tanto in una via laterale per riprendere fiato.
La Fra cerca un completo per la nipotina, Sonia souvenir per gli amici, Feddi ha il buono che le regalai al compleanno di qualche anno fa da spendere in quel mercato che valeva da promessa di venire un giorno a Bali con me, io guardo utensili da cucina in legno per la nuova casa che mi attende a luglio. Qui bisogna contrattare, lo impone la tradizione, e l'esperienza mi ha insegnato che il valore reale di un oggetto è meno della metà del prezzo iniziale. Se da un lato i mercanti si guadagnano la giornata con i turisti giapponesi che pagano senza batter ciglio, dall'altro si divertono a ribattere a quattro brianzole che non cedono fino al giusto prezzo. All'inizio, per noi che non siamo abituate a mercanteggiare, è imbarazzante chiedere uno sconto per qualcosa che costa già poco rispetto ai nostri standard, ma questa è l'usanza del luogo e, dopo un paio di acquisti, ci si appassiona al gioco: il venditore spara così alto che non ci crede nemmeno lui, scrivendo la cifra su una calcolatrice che poi passa al cliente, io ci scrivo un terzo e il venditore fa la sceneggiata del disperato che va in rovina, ma si vede che gli viene un po' da ridere, e abbassa un poco il prezzo così io alzo un poco la mia offerta; lo facciamo due o tre volte, sempre sorridendo, poi ci accordiamo per la metà di quanto richiesto e siamo entrambi contenti. 
In questo modo, tra il mercato e i negozietti nei dintorni, abbiamo comprato: due camicie per mio fratello (la vera sfida è stata trovare la sua taglia, impensabile per la media asiatica), una ciotola e un'insalatiera per la mia nuova cucina, una borsetta per la Fra, una camicetta per sua nipote, un paio di pantaloni bellissimi per la Feddi, calamite per gli amici di Sonia, pantaloni, gonna e abito per me, anelli di legno dipinto per Sonia e da regalare, maglietta per il fidanzato della Fra e borsetta per la mamma, un granchio e un gatto di latta – che fanno sia da porta candele che portafoto e mi domando se le foto non prendano fuoco... – e, infine, un pezzo di radice di zenzero che mi serviva da masticare durante il volo di ritorno perché è un ottimo rimedio al mal d'aereo. Non so se per le pillole di antimalarico per il Borneo o per la carenza di vitamina B12 (dimentico sistematicamente di prendere l'integratore), il sacchettino continuava a cadermi di mano spargendo pezzi di zenzero ovunque e la signora del banco frutta e verdura me l'ha cambiato tre volte facendogli un nodo sempre più stretto, sembravo ubriaca e più mi rendevo ridicola più ridevo e non riuscivo a raccogliere i pezzi, alla fine mezzo mercato rideva di me. Far compere è stato divertente e un mercato, ovunque nel mondo, è sempre interessante da osservare perché i visitatori si mescolano alla quotidianità degli abitanti del posto, ma dopo un po' il rumore di tante voci e il caldo immobile, compresso tra le bancarelle, ci fanno scappare.
Orientarsi nel centro di Ubud è semplicissimo: ci sono due vie principali che corrono parallele, Monkey Forest e Hanoman, e percorrendole in salita sbucano su viale Raya Ubud dove comincia il mercato, mentre in discesa finiscono nel santuario di Monkey Forest, tutte le altre strade o vicoli incrociano queste o partono da queste per finire nelle risaie. La Fra impara subito e guida il gruppo giù per quella che chiamiamo “scorciatoia”, anche se in realtà non abbrevia il percorso, dove ci sediamo a bere qualcosa di fresco: un bel cocco per esempio.
Passeggiando, si scorgono scorci della vecchia Ubud nascosti tra un hotel e un negozio, tra una gelateria – con la scritta vero gelato italiano – e un ufficio di cambio. Come piantine che crescono nelle crepe dell'asfalto, resistono all'invasione turistica l'ingresso di un tempio o di una casa tradizionale e si incontrano negozianti e ristoratori che lasciano cestini di offerte davanti a statue ornate di fiori, abbandonando i clienti per qualche minuto e dedicarsi ai propri riti, alla propria spiritualità, alla propria vita che non è soltanto vendere merci e servizi ai turisti.

Bali è anche l'isola dei cani randagi. Se ne vedono ovunque, più o meno in salute, e Feddi li fotografa tutti, dopo averli accarezzati. C'è un'associazione di volontari che si prende cura dei randagi e degli altri animali dell'isola, fornendo cure veterinarie e sterilizzazioni, sfamando cani e gatti di strada, vaccinandoli contro la rabbia e provando a trovargli una casa, chiedendo leggi che tutelino gli animali e istruendo gli alunni nelle scuole sui diritti di ogni creatura: si chiama BAWA, Bali Animal Welfare Association. Visitiamo il negozio con cui si finanziano ed è qui che facciamo gli acquisti più importanti. Sonia compra pasti e cure veterinarie, io lascio una donazione e mi porto a casa due belle tazze, la Fra infila banconote nella cassetta delle offerte e Feddi dona l'intero budget dei souvenir per gli amici – che condividono il suo amore per gli animali – sorprendendo la volontaria dietro il banco. Traduco per lei alcune domande sulle attività dell'associazione perché, d'altra parte, sono colleghe e già spunta l'idea di tornare a Bali per qualche settimana di volontariato che in questa parte di mondo ha ancora molta strada da fare e tutta in salita. Questa è un'isola piena di contraddizioni, anche riguardo i diritti degli animali: qui le scimmie che vivono nei templi sono sacre e ricevono un'infinità di cure, mentre lo zibetto – piccolo mammifero notturno diffuso nelle zone tropicali di Asia e Africa – viene tenuto in catene ed esibito anche al mercato perché con le bacche raccolte dai suoi escrementi si produce il Kopi Luwak, un caffè raro e costoso proprio perché ottenuto con questa pratica assurda. Anticamente si raccoglievano i semi di caffè dagli escrementi dello zibetto selvatico, ora si tiene in gabbia per produrne e venderne in maggiori quantità e i turisti vanno matti per questa specialità.
Noi, invece, abbiamo eletto a nostro ristorantino preferito il minuscolo – quattro tavoli – Pumpkin & Beetroot: specialità vegetariane e vegane. L'abbiamo scoperto per caso la prima sera, mentre cercavamo di allontanarci dalle vie più trafficate, ed è rimasto in cima alla classifica di Ubud perché ci siamo tornate spesso, anche dopo averne provati altri (di uno in particolare vi parlerò nei prossimi post). Ogni volta, abbiamo ordinato piatti diversi per scambiarceli e assaggiare tutto e non siamo mai rimaste deluse. Il personale è gentile e sorridente e tutto viene cucinato al momento, bisogna quindi pazientare per l'attesa, ma ne vale la pena. L'ambiente è pulito e tranquillo, alle pareti ci sono bellissimi affreschi con alberi e uccelli colorati e qui ci siamo concesse le prime birre della vacanza.

Per adesso mi fermo qui e vi regalo le prime foto di Ubud, ma la storia è appena cominciata.

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