domenica 16 giugno 2019

Compere, per cominciare


Gli abiti da escursione nella giungla non servono più e sono accartocciati in un sacchetto in fondo alla valigia insieme a fango, sudore e bei ricordi, perciò la prima giornata a Ubud comincia con una tappa in lavanderia. Svoltato l'angolo del nostro vicolo ce n'è una piccina all'interno di un cortile dove ci pesano la biancheria e paghiamo meno di 50 centesimi al chilo per averla lavata e stirata la sera stessa. Ci torneremo a turno nei giorni successivi e per lo stato pietoso dei nostri indumenti, già immaginiamo di venir soprannominate “le zozzone”, ma avremo le valigie più ordinate e profumate del volo di ritorno.
Indossati sandali e canotte, ci dirigiamo al famoso mercato di Ubud. Il cuore è un edificio in muratura con portici e balconate aperti su un cortile centrale, ma le bancarelle si estendendo anche al di fuori, invadendo i vicoli di tutto il quartiere con merci colorate, odori e voci. Qui comincia la nostra ricerca dell'atmosfera tipica balinese ed è tra oggetti d'artigianato, tessuti leggeri, pacchianate per turisti e cibi esotici che ci inoltriamo in questo labirinto affollato come un formicaio, emergendo di tanto in tanto in una via laterale per riprendere fiato.
La Fra cerca un completo per la nipotina, Sonia souvenir per gli amici, Feddi ha il buono che le regalai al compleanno di qualche anno fa da spendere in quel mercato che valeva da promessa di venire un giorno a Bali con me, io guardo utensili da cucina in legno per la nuova casa che mi attende a luglio. Qui bisogna contrattare, lo impone la tradizione, e l'esperienza mi ha insegnato che il valore reale di un oggetto è meno della metà del prezzo iniziale. Se da un lato i mercanti si guadagnano la giornata con i turisti giapponesi che pagano senza batter ciglio, dall'altro si divertono a ribattere a quattro brianzole che non cedono fino al giusto prezzo. All'inizio, per noi che non siamo abituate a mercanteggiare, è imbarazzante chiedere uno sconto per qualcosa che costa già poco rispetto ai nostri standard, ma questa è l'usanza del luogo e, dopo un paio di acquisti, ci si appassiona al gioco: il venditore spara così alto che non ci crede nemmeno lui, scrivendo la cifra su una calcolatrice che poi passa al cliente, io ci scrivo un terzo e il venditore fa la sceneggiata del disperato che va in rovina, ma si vede che gli viene un po' da ridere, e abbassa un poco il prezzo così io alzo un poco la mia offerta; lo facciamo due o tre volte, sempre sorridendo, poi ci accordiamo per la metà di quanto richiesto e siamo entrambi contenti. 
In questo modo, tra il mercato e i negozietti nei dintorni, abbiamo comprato: due camicie per mio fratello (la vera sfida è stata trovare la sua taglia, impensabile per la media asiatica), una ciotola e un'insalatiera per la mia nuova cucina, una borsetta per la Fra, una camicetta per sua nipote, un paio di pantaloni bellissimi per la Feddi, calamite per gli amici di Sonia, pantaloni, gonna e abito per me, anelli di legno dipinto per Sonia e da regalare, maglietta per il fidanzato della Fra e borsetta per la mamma, un granchio e un gatto di latta – che fanno sia da porta candele che portafoto e mi domando se le foto non prendano fuoco... – e, infine, un pezzo di radice di zenzero che mi serviva da masticare durante il volo di ritorno perché è un ottimo rimedio al mal d'aereo. Non so se per le pillole di antimalarico per il Borneo o per la carenza di vitamina B12 (dimentico sistematicamente di prendere l'integratore), il sacchettino continuava a cadermi di mano spargendo pezzi di zenzero ovunque e la signora del banco frutta e verdura me l'ha cambiato tre volte facendogli un nodo sempre più stretto, sembravo ubriaca e più mi rendevo ridicola più ridevo e non riuscivo a raccogliere i pezzi, alla fine mezzo mercato rideva di me. Far compere è stato divertente e un mercato, ovunque nel mondo, è sempre interessante da osservare perché i visitatori si mescolano alla quotidianità degli abitanti del posto, ma dopo un po' il rumore di tante voci e il caldo immobile, compresso tra le bancarelle, ci fanno scappare.
Orientarsi nel centro di Ubud è semplicissimo: ci sono due vie principali che corrono parallele, Monkey Forest e Hanoman, e percorrendole in salita sbucano su viale Raya Ubud dove comincia il mercato, mentre in discesa finiscono nel santuario di Monkey Forest, tutte le altre strade o vicoli incrociano queste o partono da queste per finire nelle risaie. La Fra impara subito e guida il gruppo giù per quella che chiamiamo “scorciatoia”, anche se in realtà non abbrevia il percorso, dove ci sediamo a bere qualcosa di fresco: un bel cocco per esempio.
Passeggiando, si scorgono scorci della vecchia Ubud nascosti tra un hotel e un negozio, tra una gelateria – con la scritta vero gelato italiano – e un ufficio di cambio. Come piantine che crescono nelle crepe dell'asfalto, resistono all'invasione turistica l'ingresso di un tempio o di una casa tradizionale e si incontrano negozianti e ristoratori che lasciano cestini di offerte davanti a statue ornate di fiori, abbandonando i clienti per qualche minuto e dedicarsi ai propri riti, alla propria spiritualità, alla propria vita che non è soltanto vendere merci e servizi ai turisti.

Bali è anche l'isola dei cani randagi. Se ne vedono ovunque, più o meno in salute, e Feddi li fotografa tutti, dopo averli accarezzati. C'è un'associazione di volontari che si prende cura dei randagi e degli altri animali dell'isola, fornendo cure veterinarie e sterilizzazioni, sfamando cani e gatti di strada, vaccinandoli contro la rabbia e provando a trovargli una casa, chiedendo leggi che tutelino gli animali e istruendo gli alunni nelle scuole sui diritti di ogni creatura: si chiama BAWA, Bali Animal Welfare Association. Visitiamo il negozio con cui si finanziano ed è qui che facciamo gli acquisti più importanti. Sonia compra pasti e cure veterinarie, io lascio una donazione e mi porto a casa due belle tazze, la Fra infila banconote nella cassetta delle offerte e Feddi dona l'intero budget dei souvenir per gli amici – che condividono il suo amore per gli animali – sorprendendo la volontaria dietro il banco. Traduco per lei alcune domande sulle attività dell'associazione perché, d'altra parte, sono colleghe e già spunta l'idea di tornare a Bali per qualche settimana di volontariato che in questa parte di mondo ha ancora molta strada da fare e tutta in salita. Questa è un'isola piena di contraddizioni, anche riguardo i diritti degli animali: qui le scimmie che vivono nei templi sono sacre e ricevono un'infinità di cure, mentre lo zibetto – piccolo mammifero notturno diffuso nelle zone tropicali di Asia e Africa – viene tenuto in catene ed esibito anche al mercato perché con le bacche raccolte dai suoi escrementi si produce il Kopi Luwak, un caffè raro e costoso proprio perché ottenuto con questa pratica assurda. Anticamente si raccoglievano i semi di caffè dagli escrementi dello zibetto selvatico, ora si tiene in gabbia per produrne e venderne in maggiori quantità e i turisti vanno matti per questa specialità.
Noi, invece, abbiamo eletto a nostro ristorantino preferito il minuscolo – quattro tavoli – Pumpkin & Beetroot: specialità vegetariane e vegane. L'abbiamo scoperto per caso la prima sera, mentre cercavamo di allontanarci dalle vie più trafficate, ed è rimasto in cima alla classifica di Ubud perché ci siamo tornate spesso, anche dopo averne provati altri (di uno in particolare vi parlerò nei prossimi post). Ogni volta, abbiamo ordinato piatti diversi per scambiarceli e assaggiare tutto e non siamo mai rimaste deluse. Il personale è gentile e sorridente e tutto viene cucinato al momento, bisogna quindi pazientare per l'attesa, ma ne vale la pena. L'ambiente è pulito e tranquillo, alle pareti ci sono bellissimi affreschi con alberi e uccelli colorati e qui ci siamo concesse le prime birre della vacanza.

Per adesso mi fermo qui e vi regalo le prime foto di Ubud, ma la storia è appena cominciata.

lunedì 10 giugno 2019

Decompressione fallita


La mattina in cui abbiamo salutato il Kalimantan siamo atterrate a Jakarta dove, due ore dopo, avremmo preso un altro volo per Denpasar sull'isola di Bali per trascorrere un periodo intermedio tra la natura sfolgorante del Borneo e il grigiore delle città che ci aspettava a casa. Ci serviva qualche giorno spensierato per attutire l'impatto, un po' come la lenta risalita dei sub dagli abissi che si fermano per tappe di decompressione. 
Il brutto degli aeroporti internazionali, come quello di Jakarta, è che sono enormi e ci vuole tempo per spostarsi da un gate all'altro. Mentre aspettiamo i bagagli, chiediamo informazioni e scopriamo di dover cambiare terminal, ma c'è lo Skytrain, navetta gratuita su rotaia che collega i tre terminal con la stazione dei treni che vanno in città. Ci ha salvato la vita, evitandoci corse a perdifiato, anzi, ci è avanzato il tempo di pranzare. È vero, parlo sempre di cibo, ma guardate cos'ha ordinato Feddi: una montagna di sorbetto al melone con pezzi di mango!


Nel primo pomeriggio, atterriamo a Bali e ci sembra di essere arrivate su un altro pianeta. La personalità dell'isola, se le isole hanno una personalità, si avverte immediatamente perché l'aeroporto è decorato con fregi tipici dell'induismo locale e, cosa che ha molto colpito le mie compagne, perfino il parcheggio multipiano è abbellito da piante e fiori.
A parte la bella accoglienza, però, la decompressione comincia male, confermando la nostra sfortuna con i taxi: il tassista più lento del mondo sommato al traffico dei dintorni di Denpasar ci porta a destinazione nel doppio del tempo preventivato. Se non altro, è onesto sul prezzo e ci scarica nel posto giusto: all'ingresso di un vicolo di Ubud in fondo al quale si trova il nostro albergo. 
Avevo scelto un bed & breakfast con piscina per le giornate più calde, vicino al centro, ma abbastanza defilato da non risentire del traffico e della gente. Per essere tranquillo, il Suarsena Bungalows, è tranquillo e la posizione è ottima per girare Ubud a piedi, ma per il resto è un disastro. Tanto per cominciare, ci assegnano due stanze lontane tra loro, non solo su piani diversi, ma proprio in due edifici diversi. Chiedo subito al ragazzo in reception se è possibile avvicinarci, inventando mi che abbiamo i bagagli condivisi e dovremmo fare su e giù per le scale in continuazione. Mi assicura che il giorno dopo provvederà e, per il momento, ci accontentiamo.
Fra & Feddi, vista dalla piccionaia
Feddi e la Fra finiscono "in piccionaia", cioè una stanza nel sottotetto bollente che però ha una vista panoramica magnifica; Sonia e io, due piani più giù nella palazzina accanto, abbiamo una camera più fresca, ma manca l'acqua calda. Entrambe le stanze sono sporche, il letto di Sonia non è stato rifatto, la piscina non sarebbe male se non fosse a ridosso delle stanze e della reception in un cortiletto minuscolo, gli asciugamani sono ingrigiti (per fortuna avevamo i nostri), il personale è composto soprattutto da ragazzini ipnotizzati dagli smartphone che parlano a malapena inglese e sono quindi incapaci di rispondere alle nostre richieste (fargli capire che vogliamo lenzuola pulite è stato così faticoso che ero tentata di andarle a comprare), gli addetti alla reception sono sempre diversi e pare non si passino le informazioni così bisogna ricominciare da capo a spiegare cosa non va, infine, scopriremo il mattino dopo, la colazione è così scadente che la faremo fuori tutti i giorni. Non so proprio da dove vengano le recensioni positive che avevo letto su questo posto quando ho prenotato, credo sia stato lasciato andare col tempo perché la struttura in sé sarebbe anche bella, tipica balinese, basterebbe un po' di cura, manutenzione, pulizia per farne un buon albergo e magari formare un pochino lo staff in modo da dare un servizio decente, anziché sfruttare ragazzini che ti guardano perplessi quando chiedi un rotolo di carta igienica. 
Dunque, alloggio bocciato, tuttavia ci diciamo che dobbiamo soltanto dormirci e usciamo a passeggio per il centro. Sono impaziente di mostrare alle ragazze le vie che ho percorso tante volte e lo stile di vita che mi ha conquistata tra templi e risaie. Nei miei ricordi, Ubud era una cittadina affascinante e tranquilla, lontana dalle spiagge e dal turismo di massa, famosa per l'arte e l'artigianato, che conservava lo spirito tradizionale di Bali con le sue cerimonie indù e il mercato che convivevano in un'atmosfera serena. Era così la prima volta che ci sono stata nel 2010 ed era ancora così due anni fa l'ultima volta che l'ho lasciata, ma non lo è più e non mi aspettavo che Ubud avesse subito una tale trasformazione in poco tempo. Veniamo inghiottite da marciapiedi affollati e vie talmente trafficate che è un'impresa attraversarle perché, scopriamo, maggio è già periodo di alta stagione e i fatica a incontrare un balinese tra i turisti. Australiani, inglesi, francesi, americani, giovani, anziani, famiglie con bambini... Eccheè 'sto casino?
Cerco di portare le ragazze verso i luoghi che ricordavo belli, ma il caos rende irriconoscibili anche gli angoli più tipici. Non riesco a trovare un locale dove servano il caffè indonesiano perché ormai hanno installato tutti la macchina per l'espresso, dopotutto è quello che chiedono i turisti; i ristorantini che frequentavo sono stati sostituiti da cocktail bar alla moda e nei menù si trova pizza ovunque. Le usanze, le tradizioni, lo stile di vita rilassato che rendevano Ubud unica e interessante sono stati sacrificati in nome del turismo di massa. Se vuoi un espresso, te lo bevi al tuo paese: qui il caffè si fa in un altro modo! Altro che decompressione...
Sono delusa e mi intristisco pensando che non era questo che desideravo mostrare alle mie amiche e che non valeva per nulla la pena di lasciare il Kalimantan per quello che mi sembra un centro commerciale all'aperto. Che fine ha fatto la Bali autentica?
La risposta nei prossimi post e anche le foto, per non spoilerare.

martedì 4 giugno 2019

Cibo e altre piccole cose

Prima di passare alla seconda parte della vacanza sull'isola di Bali, vi diletto con un piccolo post che serve più a noi che a voi, per conservare alcuni dettagli che ci farà sorridere rileggere tra dieci anni.

Assalto alla dispensa
Ci chiamiamo Cavallette perché non lasciamo nulla in tavola al nostro passaggio e anche in Kalimantan abbiamo onorato la cucina. La cuoca della Rimba King, della quale purtroppo non abbiamo capito il nome, era una tenera donnina musulmana capace di stupirci a ogni pasto malgrado le restrizioni che le nostre diverse diete le hanno imposto. Nelle sue mani, il tofu diventava appetitoso, il tempeh croccante, le verdure insaporite da spezie misteriose che proprio da queste isole partivano per l'Europa su grandi velieri, facendo la fortuna dei mercanti e finanziando i grandi viaggi d'esplorazione, come quello di Magellano.
delizia di tofu
L'ora di pranzo era una festa e in tavola arrivavano sempre cinque o sei pietanze diverse, oltre all'immancabile riso bianco che sostituisce il nostro pane, e si concludeva con frutta fresca o un dessert sempre a base di frutta. A cena, invece, si cominciava con una scodella di zuppa calda, diversa ogni volta – strepitosa quella di mais – e poi arrivavano le portate principali. Durante la navigazione, ci servivano anche la merenda: noce di cocco da bere e poi scavare con il cucchiaio, banana fritta, caffè indonesiano, tè, arachidi, banana con scaglie di cocco. Una volta ho provato a ordinare in indonesiano, ma mi sono incasinata con i numeri così Eros e i ragazzi ridevano di me che non so contare fino a quattro. Alla fine, ho detto più o meno correttamente: «Tiga kopi e satu tè» e abbiamo avuto i nostri tre ottimi caffè e un tè per la Fra.
ingredienti grezzi
Anche nell'aspetto, i piatti erano spettacolari con tutti quei colori e i profumi irresistibili, spesso dimenticavamo di fotografarli prima di consumarli. Ho sempre amato la cucina indonesiana e avevo chiesto a Feddi, che tra le altre mille qualità è pure chef, di documentare tutto per ripropormelo a casa. Di una salsa particolarmente deliziosa, abbiamo chiesto la ricetta e la cuoca, non sapendoci elencare gli ingredienti in inglese, è scesa in cucina ed è tornata con le materie prime per mostrarcele: radici, spezie, erbe e verdure che lavorava a mano sul momento. Il segreto di un buon piatto sta sempre nella qualità degli ingredienti e nel saperli lavorare freschi. Aggiungete poi il piacere di gustarli sul ponte di un klotok che naviga tranquillo su un fiume circondato dalla giungla e la cortesia dei due timidi ragazzi che ce li servivano e restavano sempre un po' stupiti di trovare i piatti vuoti, praticamente lucidati, e impilati in bell'ordine quando sparecchiavano. Immaginavamo quello più cicciottello – che non ha voluto comparire nelle foto – che scendeva annunciando che, ancora una volta, «Han magnà tucc!» Insomma, durante la nostra permanenza, l'equipaggio è dimagrito, noi ingrassate!

la nostra fantastica cuoca

Un albero in più, anzi quattro
Abbiamo pagato l'intero soggiorno in Kalimantan prima di partire, in modo da non avere pensieri sul posto, ma non avevo capito che anche i quattro alberi piantati a Pesalat fossero compresi nel conto. Con le ragazze avevamo già messo da parte i soldi per pagarli, così li abbiamo dati lo stesso a Udin per quattro alberi in più. Siamo tornate a casa con otto alberi a nostro nome piantati nel Borneo, appena otto gocce nell'oceano della deforestazione, ma da qualche parte bisogna pur cominciare ed è bello pensare che forse, un giorno, quegli alberi daranno riparo e cibo agli animali della giungla. Un pezzo di noi che cresce laggiù ci fa sentire di ripagare un pochino la foresta per tutta la gioia che ci ha regalato.

Risate notturne
La notte in hotel a Pangkalan Bun è stata piena di pensieri che non ci facevano prender sonno anche se eravamo stanche. 
Io e Sonia condividevamo la camera e, rinfrescate da una bella doccia, ci siamo messe a letto. 
Dopo un po' che avevamo spento la luce, l'ho sentita ridere.
«Cazzo ridi nel sonno?»
«Mi è tornato in mente in ragazzo che scende con i piatti vuoti: han mangà tucc!»
Ridiamo come due sceme, poi ci imponiamo di dormire perché dovevamo alzarci prestissimo.
D'un tratto la stanza si illumina di luce azzurra, come se fossero arrivati gli alieni di Spielberg.
«Ma è il tuo cellulare?» mi domanda la Master.
L'avevo lasciato in carica sulla scrivania, acceso perché avevo impostato la sveglia, ma era rimasto connesso al wifi e all'arrivo di qualche messaggio si è illuminato.
«Sì, scusa» ho risposto alzandomi «Disattivo il wifi così non mi arrivano altri messaggi.»
Torno a letto e il display è ancora illuminato, resta così per qualche minuto e non accenna a spegnersi.
«Ecco» mi giustifico «Senza connessione la luce rimane accesa fissa.»
Scoppiamo a ridere di nuovo, finché la luce si affievolisce e infine scompare. Buonanotte, Kalimantan.

Ultima cosa
Al molo del lodge c'era questo cartello che non ho capito...




P.s. In questo album speciale ho raccolto tutti i filmati ripresi da Feddi.


domenica 2 giugno 2019

Incontri mancati e ringraziamenti dovuti

Nessuna di noi vuole andarsene. 
Per quanto ci manchino gli affetti di casa, desideriamo essere abbandonate nella giungla. Dobbiamo assolutamente tornare è diventato il mantra della giornata. Alla fine, però, abbiamo dovuto chiudere le valigie e restituire le chiavi delle nostre belle camere con vista sulla foresta.
L'appuntamento con la Rimba King al molo è alle 17.00 e, come sempre, siamo in anticipo perciò andiamo all'ufficio del lodge a comprare spille e cartoline, dando un altro piccolo contributo alla conservazione del parco. Lasciamo anche alla responsabile alcuni pacchetti di matite nuove che ci eravamo portate da casa perché li faccia avere ai bambini di qualche villaggio o a una scuola, da queste parti sono di certo più utili che nelle località turistiche.
Tornando verso il fiume, notiamo che l'ingresso del lodge è addobbato a festa e il personale in tenuta elegante.
Eros ci spiega che sta per arrivare un gruppo di americani ospiti di Biruté Galdikas.
«E c'è anche lei?» chiediamo eccitate «Biruté sta venendo qui?»
«Sì, ma non si sa bene a che ora.»
Ci pensate? Io che stringo la mano a Biruté Galdikas, macché, l'abbraccio senza vergogna! 
Ci siamo sedute sul molo ad aspettarla insieme agli altri. Intanto, i due ragazzi che in questi giorni si sono presi cura di noi servendoci i pasti in barca, aiutandoci a salire e scendere, porgendoci la mano per saltare da un ponte all'altro quando il nostro klotok si fermava in doppia fila ai piccoli moli sul fiume, stavano già imbarcando le nostre valigie.
I minuti passano a decine e, purtroppo, non si vede arrivare la barca di Biruté, ma non possiamo ritardare la partenza. Dovendo trascorrere l'ultima notte a Pangkalan Bun (il volo per Bali è la mattina presto) ci aspettano due ore di klotok fino a Kumai e poi una ventina di minuti in auto, quindi ci dispiace anche per l'equipaggio che deve accompagnarci. Niente, si vede che non era destino, questa volta.
Prendiamo posto nel nostro salottino di vimini sul ponte e navighiamo verso un tramonto che si fa sempre più spettacolare. A un certo punto incrociamo un klotok fermo dietro un'ansa e lo superiamo lentamente. Sul ponte c'è un gruppo di persone intorno a un grande tavolo e sulla sedia che ci dà le spalle c'è una donna che per corporatura, abbigliamento e capigliatura ci ricorda proprio Biruté. Che sia davvero lei con i suoi ospiti? Come d'abitudine tra due imbarcazioni che si incrociano, i passeggeri ci salutano, compresa la signora e noi ricambiamo. A vederla in viso mi sembra più giovane di Biruté, eppure mi resta il dubbio. Feddi ha ripreso il passaggio accanto alla barca, ma dura pochi istanti e non si vede bene. Poco dopo averli superati, Eros sale per dirci che quello era effettivamente il gruppo di ospiti atteso al lodge, ma che Biruté non era tra loro, anzi, sarebbe arrivata l'indomani. Non saprò mai se l'ha detto solo per consolarci sapendoci deluse per il mancato incontro, ma, nel caso quella signora fosse stata la leggendaria primatologa, almeno posso dire che ci ha salutato.
L'ultimo tramonto sulla nostra avventura in Kalimantan è meraviglioso, pieno di colori che fanno risaltare il profilo nero della giungla di cui siamo innamorate e che ci ha dato tanto da ricordare. Le nuvole prendono forme fantasiose e gli uccelli ci volano in mezzo, mentre il sole, nascosto dagli alberi, lancia pennellate di colori scintillanti per tutto il cielo. 


Spunta la luna e il buio avanza sul fiume avvolgendo la nostra barca. Sulle sponde, compaiono sciami di lucciole a illuminare la foresta come fosse un bosco di alberi di Natale. È tutto splendido, ma noi siamo un po' tristi perché stiamo andando via e continuiamo ripensare a quanto è bello ciò che abbiamo vissuto in questi giorni.
Alle sette l'oscurità è totale, ci sono solo i deboli fari del klotok a disegnare una striscia di luce sulla riva, seguendo le curve del fiume. Penso agli orangutan che a quest'ora stanno costruendo i nidi per la notte e mi torna in mente il racconto di Eros su come tutto sia collegato: le fronde strappate per fare i nidi lasciano passare la luce del sole attraverso l'ombrello della foresta ed è così che le piante più giovani e basse ricevono la luce necessaria a crescere. La natura pensa proprio a tutto, peccato che l'interferenza dell'uomo rischi di inceppare irrimediabilmente questo meccanismo perfetto.
Ci accorgiamo che andiamo incontro al mare perché vediamo mutare la vegetazione intorno a noi e il Sekonyer si allarga fino a spalancarsi nella baia di Kumai. Ci stiamo lasciando la giungla alle spalle e siamo ancora più tristi. Salutiamo gli alberi, la pioggia, le Nasica, le farfalle, i macachi, gli uccelli, i gatti, gli splendidi orangutan e già ne sentiamo la mancanza. Le nostre camere al lodge andranno a qualcun altro e invidio le mie scarpe che sono rimaste là.
All'imbocco della grande baia di Kumai le luci del paese in lontananza sono tutte in fila davanti a noi, ma ci accorgiamo che smettono di avvicinarsi.
«Siamo quasi arrivati, ma Eros aveva detto che avremmo cenato in barca o ricordo male?»
«Anch'io avevo capito così, però è tardi, forse ceneremo in hotel.»
Siamo sedute sulle nostre poltrone al buio e speriamo di non sbarcare mai, anzi, vorremmo invertire la rotta e tornare indietro, restare ancora un po' in paradiso. Da sotto non giungono né voci né rumori che ci diano un indizio, non capiamo bene se siamo fermi o andiamo pianissimo, il motore è al minimo. Prendo il quaderno dallo zaino, accendo la luce e mi metto al tavolo a trascrivere qualche pensiero, quando d'un tratto odo un suono familiare: «Ragazze, sento friggere!»
«Forse è la cena per loro.» L'equipaggio era in pieno Ramadan, dunque mangiava solo dopo il tramonto.
Confuse, ci raduniamo intorno alla tavola, aspettando che, finito di cenare, il capitano faccia rotta verso il paese e magari chiederemo l'ultimo caffè a bordo. Poi sentiamo l'inconfondibile: «Rumore di posate!» e finalmente Eros e i ragazzi arrivano dalla scala con i piatti in mano.
Sembravamo quattro vagabonde che non vedevano un pasto da mesi. Oh sì, la nostra ultima cena nel Borneo doveva essere in barca e ci è tornato il sorriso.
Più tardi, al molo privato da cui eravamo partite giorni prima, chiediamo di radunare un attimo l'equipaggio perché desideriamo ringraziare tutti per averci accompagnate in questa avventura con tante premure, ma senza mai essere invadenti. Il capitano, la cuoca e i due giovanissimi marinai erano sorpresi di essere inclusi nei ringraziamenti, evidentemente per i comuni turisti sono semplici comparse nel film della loro vacanza, mentre noi Cavallette siamo sempre attente a chi si prodiga per noi, ci imbarazza farci portare le valigie, aiutiamo a sparecchiare, arriviamo in anticipo per non farci attendere e ci piace mostrare che apprezziamo il loro lavoro. Eros è stato una buona guida, sempre sorridente, preparato quando gli facevamo domande e pronto quando avevamo qualche richiesta, ma non ci ha mai annoiate con lunghi spiegoni né ci ha costrette in un programma serrato, ha seguito i nostri ritmi e ci ha lasciato i nostri spazi. Abbiamo avuto un trattamento eccellente e tenevamo molto a dirglielo, consegnando a ognuno una busta con un messaggio e una piccola mancia. 
Sbarchiamo e i nostri bagagli vengono trasferiti su una monovolume con autista diretta all'hotel dove avevamo pranzato all'arrivo, un albergo di lusso dove, al solito, siamo le peggio vestite. La nostra guida ci scorta alla reception e sbriga le formalità per noi, gli chiediamo anche di farci avere un asciugacapelli, nella giungla non valeva la pena lavarseli, ma era giunto il momento di riprendere un aspetto decente. Scopriamo che Eros passerà la notte in città e verrà a prenderci il mattino dopo per accompagnarci in aeroporto, mentre credevamo di dover prendere un taxi: disponibile proprio dal primo all'ultimo istante. Ci affida al personale dell'hotel e ci dà appuntamento per le 6.30, sapendo che ci troverà pronte, come sempre.
Un fattorino, ci carica le valigie in ascensore e ci manda al terzo piano. Quando si aprono le porte, lo troviamo già lì: ma come diavolo ha fatto tre piani in cinque secondi? «Ma no, è un altro che gli somiglia» rispondo alle ragazze perché mi pare impossibile pure per Bolt, eppure sembra proprio lo stesso uomo. L'arcano si svelerà il mattino dopo quando, scendendo con la mia valigia, premo lo zero e mi trovo nel seminterrato in una sala per karaoke: l'ingresso al livello della strada è in realtà il secondo piano perché più in basso ci sono il giardino e il ristorante e ancora sotto il karaoke e il centro benessere. Allora sì, era lo stesso uomo che è salito di un piano soltanto.
Al piccolo aeroporto di Pangkalan Bun, salutiamo Eros e ci si spezza il cuore a prendere l'aereo che ci porterà via da questo paradiso. Selamat tinggal, arrivederci, meraviglioso Kalimantan!
Speriamo di essere state buone ospiti di Madre Natura e ce ne andiamo arricchite da tutti i suoi doni, comprese le persone gentili che ci hanno tenuto per mano attraverso questa indimenticabile esperienza. Lasciatemi anche dire che sono molto orgogliosa delle mie ragazze che l'hanno apprezzata pienamente e ci si sono immerse senza indugi o pregiudizi, senza mai lamentarsi del caldo o di fare pipì su una barca in movimento. Sono fortunata, ho delle amiche speciali: allegre, sensibili, generose, divertenti, curiose e intelligenti... come appare chiaro dalle loro espressioni in questa foto.




Come ha detto Feddi, lasciare la giungla è stato come svegliarsi da un bel sogno e poi scoprire che si poteva dormire ancora un po' perché eravamo dirette a Bali. Sapevamo che, dopo essere state così bene in mezzo alla natura, nessun altro luogo avrebbe retto il confronto, ma era sempre meglio che tornare a casa.
Qui trovate le ultime foto dal Kalimantan, ma il viaggio continua nei prossimi post.