Chi ha seguito la mia avventura in Indonesia sa che sull'isola di
Sumatra ho avuto l'onore di collaborare con ALeRT, una piccola
associazione locale che opera con enorme impegno e grandissima
passione per la conservazione della foresta e degli animali del parco
nazionale Way Kambas. Ve ne ho parlato in questo post, ma il mio
legame con questi ragazzi è ancora saldo malgrado migliaia di
chilometri di distanza, perciò ho organizzato un incontro a
Milano per sostenerli.
Sono molto soddisfatta di come è andato, non tanto per me, che ero emozionata e in lite con la tecnologia del proiettore, ma per l'interesse del bellissimo pubblico che è intervenuto.
Ho voluto raccontare di ALeRT, di una realtà che ci pare lontana
eppure ci riguarda perché questo pianeta diventa sempre più
piccolo, ciò che accade al di là di un oceano prima o poi si
riflette anche nelle nostre vite e allora diventa importante. Ho
voluto raccontare di questi ragazzi che dalle generazioni precedenti hanno
ereditato un mondo da salvare: foreste distrutte, mari inquinati, animali a rischio di
estinzione, risorse in via di esaurimento. Ho voluto raccontare il
loro desiderio di consegnare questo mondo nuovamente rigoglioso ai
ragazzi di domani e mostrare quante difficoltà affrontano nel
realizzarlo.
Il pubblico ha seguito con interesse il mio percorso fotografico,
malgrado qualche piccolo intoppo superato con una
risata. Per esempio, parlando della piaga degli incendi appiccati dai
bracconieri, volevo far ascoltare il suono della foresta che brucia
con un filmato che io stessa avevo ripreso con il cellulare durante
una spedizione antincendio. Così, tutta orgogliosa, faccio
partire le immagini, ma non si sente nulla. Ritento. Tutti fanno
silenzio e tendono le orecchie, ancora nulla. «Molto bene, troverete
il filmato sul mio blog domani!»
Ed eccolo qui.
Audio e video, invece, hanno funzionato alla perfezione con questo
altro filmato, un montaggio delle scene riprese dalle nove
videocamere installate da ALeRT, in collaborazione con altre
associazioni, nell'area più interna e selvaggia del parco nazionale
Way Kambas. Oltre a servire per il censimento faunistico, queste
immagini mostrano gli animali liberi e indisturbati nel loro ambiente
naturale e forse non sono di gran qualità, ma io le trovo
meravigliose.
Per preservare tutta questa bellezza, tutta questa vita, e per
preservare anche la qualità della nostra vita, è necessario
intervenire con urgenza sulle cattive abitudini di tutti noi, non
solo rimediando ai danni, ma soprattutto attraverso l'educazione
ambientale. Sappiamo che non esiste uno stile di vita a impatto zero
con sette miliardi e mezzo di persone e non si tratta di diventare
fanatici dell'ecologia. Educazione ambientale significa semplicemente
essere consapevoli delle conseguenze che ogni nostra azione
quotidiana comporta, scegliere una via alternativa ogni volta che ci
è possibile, ridurre gli sprechi. Insomma, prestare attenzione a
piccoli gesti che, moltiplicati per tutti gli abitanti del pianeta, possono davvero fare la differenza tra un futuro in cui uomo e natura
convivono in equilibrio, godendo delle risorse disponibili, e un
deserto in cui la vita diventa impossibile per chiunque.
Sono grandi temi, enormi responsabilità, ma torniamo nel nostro
piccolo, torniamo a una manciata di ragazzi che spengono incendi,
piantano nuovi alberi e raccontano agli studenti invitati a visitare il parco che è possibile e
importante conservare la foresta che confina con i loro villaggi.
Organizzare questo incontro è stato il mio piccolo contributo
all'impegno dei volontari di ALeRT, persone comuni eppure
straordinarie che meritavano il pubblico straordinario che è
intervenuto. Seppur poco numeroso, ha dimostrato una grande
generosità e ringrazio ancora ogni ospite, come ho fatto di persona,
perché non mi aspettavo un risultato così importante e, come
promesso, ecco le vostre donazioni che partono per l'Indonesia:
Nelle prossime settimane, tornerò con un post per farvi sapere in dettaglio - e mostrarvi con qualche foto che ho chiesto di inviarmi - come sono
state investite le vostre donazioni. Intanto, però, potete già vantarvi con
gli amici, raccontando che in Indonesia sta crescendo un albero con il
vostro nome.
All'ultima
pesata della mia valigia in aeroporto, il display segnava 18,1 kg e
credo sia un piccolo record per una donna in viaggio da tre mesi.
Insieme a indumenti e accessori, mi sono sempre caricata sulle
spalle, più o meno consapevolmente, una quantità di dubbi e paure.
La bellezza dell'esperienza che ho appena fatto sta anche nell'aver
affrontato e vinto qualche timore ed essere riuscita ad abbandonare
un po' di quel peso inutile. Tranne un chilo.
Quando
viaggiavo in coppia o con amici e amiche, osservavo i viaggiatori
solitari e mi chiedevo quanto fossero lunghe le loro ore, i loro
voli, le loro notti senza qualcuno accanto con cui parlare o al quale
indicare un panorama, un avvenimento, un dettaglio. Poi sono partita
da sola e ho capito. Il viaggio è un'esperienza che investe e
travolge come un'onda, avere intorno altre persone ne smorza
l'intensità. Condividere è un frangiflutti che ci protegge, soli
siamo esposti alla marea, con tutto il bene e il male che porta con
sé e si porta via con la risacca. Il cervello, non impegnato dalla
compagnia, si apre a milioni di stimoli, registra, reagisce. Si
elaborano catene lunghissime di ragionamenti che mescolano scoperte e
ricordi, conosciuto e sconosciuto, realtà e aspettativa. Non dico
che viaggiare in solitudine sia meglio, amo i miei compagni
d'avventura, dico che è molto diverso. Lo è in maniera così profonda che mi
ha dato una nuova prospettiva sul mondo e sulla vita. Ho osservato con i miei occhi e i miei soltanto, tutti dovrebbero provarci almeno una volta.
Ma veniamo al chilo di troppo che ha appesantito tanta bellezza. Leggendo il libro Vado al Capo di Sergio Ramazzotti, ho
invidiato il suo viaggio attraverso l'Africa da nord a sud, da solo e
usando soltanto mezzi pubblici e autostop. Una donna non potrebbe
farlo, le donne che hanno provato qualcosa di simile sono considerate
eroine ed è questo a farmi arrabbiare: perché per una donna
dovrebbe essere un'impresa eroica? Perché sì, purtroppo, è la
risposta ignorante della realtà in cui viviamo. Che
siamo fisicamente inferiori non si può negare, tutto il resto lo
fanno i pregiudizi. Qualcuno di voi ricorderà la storia delle due
turiste uccise in Ecuador, qualche mese fa. Si tratta di un caso
esploso sui social grazie al post di una ragazza che si è
immedesimata nelle vittime e ha dato loro voce contro chi le ha
criticate perché, in quanto donne, viaggiando da sole se la sono
cercata. Ne hanno parlato, tra gli altri, anche i siti di Repubblica
e Il Corriere della Sera. Essere aggrediti, derubati, truffati,
uccisi capita anche agli uomini, questo mondo non è sicuro per
nessuno. Le due turiste, però, «se lo dovevano aspettare» e poi «i
loro genitori non avrebbero dovuto permettere che partissero da
sole». È questo che fa rabbia a me e alla studentessa che ha
scritto il post.
Essere
donna è già una limitazione della libertà: attenta a come ti
vesti, agli sguardi che incroci, a quanto sorridi, a chi rivolgi la
parola, allontanati, cambia marciapiede, ignora quel commento. Che
palle! A me non interessa il femminismo che pretende ministra e
architetta, la parità che vorrei è quella di viaggiare con la
stessa sicurezza e insicurezza di un uomo.
Per
questo, ripeto, viaggiare da sola è stato bellissimo, ma lo sarebbe
stato ancor di più se non mi fossi portata appresso quel chilo
d'ansia in eccesso che pesa nel bagaglio di ogni donna.
Ho l'impressione di non
aver mai conosciuto sorrisi così sinceri, occhi così brillanti,
spiriti così appassionati, cuori così forti come quelli che mi
hanno accolta il primo giorno e che ho dovuto salutare l'ultimo
giorno all'aeroporto di Bandar Lampung. Sono tornata in Italia
spezzata, una parte di me, una grossa parte, è rimasta a Sumatra.
Cos'è successo tra quel primo e ultimo giorno per spaccarmi in
questo modo?
Lo so, ce l'avete con me perché vi ho lasciato nel silenzio e nel dubbio. Dove sarà finita Simona?Presto vi racconterò dove e come ho trascorso le ultime settimane, potrete soddisfare la vostra curiosità e dirmi cosa ne pensate. Domenica sera prenderò il volo che mi riporterà in Italia, però consideratemi di passaggio, sempre con la valigia pronta perché la mia avventura non è finita, solo momentaneamente sospesa.
Io, un vero indirizzo, non ce l'ho. Casa mia è tutto il mondo, anche se non è facile condividerla con nove miliardi di coinquilini che, in larga maggioranza, sono disordinati, irrispettosi, chiassosi e mi stanno sulle palle. Mi piace rifugiarmi nelle stanze ancora riservate alla natura e ci starei per sempre. Ma ci sono a volte dei ma ed è per risolverli devo rientrare per qualche tempo.
Lo so, non è facile starmi dietro. Non è facile avere per amica una persona come me, sapendo che sta sempre altrove, con il corpo o con la mente, sapendo che sarà sempre un continuo perderla e ritrovarla. Chi ce la fa, però, sa di avere tutto il mio amore, ovunque mi trovi, che sia sotto forma di abbraccio o di mail da un luogo lontano.
Questa era la parte romantica, vera quanto quella che segue.
Per tre mesi, tutti: "ci manchi" e "senza di te non è lo stesso" e "torna presto", ma poi non c'è un cane che mi venga a prendere a Malpensa lunedì mattina! Tranquilli, solo 16 ore di volo, 4 di scalo e, a quanto pare, 1 di autobus, poi potrò mandarvi a cagare di persona.
Oggi vorrei essere a Roma per abbracciare Jane Goodall, ma anch'io sto per raggiungere una delle «cattedrali di luce e di verde che danzano incessantemente» per dare il mio piccolo contributo a mantenerle vive e danzanti. Da Kuala Lumpur, domattina, tornerò in Indonesia, precisamente nel sud dell'isola di Sumatra dove si trova il Parco Nazionale Way Kambas.
La mia avventura sta per entrare in una fase più selvatica dove internet, e di conseguenza questo blog, non arriveranno. Non vi preoccupate, per sicurezza, ho lasciato a casa una multa non pagata così, anche se mi smarrissi nella giungla, l'Agenzia delle Entrate mi troverebbe. Meglio dei corpi speciali quando c'è da incassare.
Vi lascio con un riassunto del mio percorso fin qui. La colonna sonora è One crowded hour degli Augie March che, essendo australiani, cantano - e scrivono i testi - in uno slang a tratti incomprensibile, ma potrebbe semplicemente essere poesia. Be', a me piace come impazzisce il pianoforte verso il finale. Le immagini, invece, sono tutte mie e ci troverete un po' di ogni storia che vi ho raccontato su questo viaggio. Così, tanto per tenervi compagnia mentre non ci sono.
Scrivo questo post da una camera singola al quinto piano di un hotel di Kuala Lumpur in Malesia. La vista dalla mia finestra è questa qui accanto.
L'arredamento della stanza insieme al panorama di grattacieli illuminati mi dà la sensazione di trovarmi negli anni Ottanta nella New York di Una donna in carriera. Immaginavo la Malesia, invece, come Sandokan e sono sempre un po' delusa quando la mattina mi sveglio nel secolo, nel millennio, sbagliato.
Be', è il 2017 e mi sono fermata qui dopo la vacanza in Sri Lanka con il TdC. È di quella che vi parlo oggi. Capirete che condensare due settimane in un post non è come raccontarvelo un po' alla volta, in diretta, soffermandomi su ogni piccola cosa che attira la mia attenzione. Ho deciso di dedicare un pensiero a ogni tappa del nostro tour, poi c'è un grasso album fotografico che vi mostra dove siamo stati e cosa abbiamo visto. È ovvio che qualcosa rimarrà non detto, per ogni domanda vi venisse in mente, ci sono i commenti e vi risponderò con piacere.
Questa è la mappa con l'indicazione – pallini rossi – delle località che abbiamo visitato.
Ho programmato questo post tempo fa perché fosse pubblicato automaticamente il giorno del mio compleanno. Per fare le cose in grande, l'ho fatto in stereo, infatti lo trovate uguale sull'altro blog.
È un po'come spedire un biglietto d'auguri a me stessa, un biglietto di quelli esposti nelle cartolerie. Ne ho scelto uno con una poesia di Hemingway sul frontespizio.
Tu non sei i tuoi anni, né la taglia che indossi, non sei il tuo peso o il colore dei tuoi capelli. Non sei il tuo nome, o le fossette sulle tue guance, sei tutti i libri che hai letto, e tutte le parole che dici sei la tua voce assonnata al mattino e i sorrisi che provi a nascondere, sei la dolcezza della tua risata e ogni lacrima versata, sei le canzoni urlate così forte, quando sapevi di esser tutta sola, sei anche i posti in cui sei stata e il solo che davvero chiami casa, sei tutto ciò in cui credi, e le persone a cui vuoi bene, sei le fotografie nella tua camera e il futuro che dipingi. Sei fatta di così tanta bellezza ma forse tutto ciò ti sfugge da quando hai deciso di esser tutto quello che non sei.
Quello che invece mi sono scritta all'interno del biglietto è una cosa tra me e me :)
metto in pausa il blog per due settimane. Oggi mi sposto in Sri Lanka.
Siccome ho un programma di esplorazione dell'isola molto intenso e credo sarà difficile trovare la connessione internet, non vi assicuro che riuscirò a pubblicare. Ogni tanto passate pure di qui a dare un'occhiata, ma è più probabile che vi racconti di Ceylon alla fine del viaggio, con un post corposo quanto una saga fantasy e quindici milioni di foto.
Certi giorni, qualunque cosa pianifichi va per il verso sbagliato e il giorno in cui ho deciso di andare al mare è stato, purtroppo, uno di quelli.
Con Atik avevo pensato di andare a White Sand Beach, vicino a Padangbai, fare un po' di snorkeling tra i pesci della barriera corallina poco lontana dalla riva, pranzare, e poi proseguire per Virgin Beach, poco fuori Candidasa, infine tornare a Ubud per cena. Avevo voglia di nuotare e mostrarvi due spiagge tropicali degne delle fantasie su questi luoghi, al contrario di Seminyak.
Il destino, però, si è messo di traverso in ogni modo.
Prima di raccontarvelo, mi concedo una parentesi di ricordi sulle due cittadine che fanno da riferimento sulla mappa di Bali. Padangbai è un grazioso paesino di pescatori sorto intorno a un porto commerciale dal quale partono i traghetti per Lombok e per le isole Gili. Ripenso alla manciata di giorni trascorsi sette anni fa sulla minuscola Gili Meno e credo di non aver mai più provato la stessa sensazione di isolamento e lontananza dal mondo. Un'intensa esperienza da eremita che un giorno mi piacerebbe rivivere. Candidasa, invece, mi fa tornare in mente una sciocchezza, il cartello esposto in un bar dove ci fermammo a bere: Men, no shirt no service. Women, no shirt free drink. (Uomini, niente maglietta niente servizio. Donne, niente maglietta drink in omaggio.)
Negli anni avete letto le mie storie su Stromboli, Kelimutu, Anak Krakatau, Kilauea, Mauna Ulu, il supervulcano Toba col suo lago e altri post da appassionata di geologia, soprattutto dalle Hawaii. Oggi aggiungo alla lista un nuovo vulcano, anzi, una bella caldera del diametro di 13 chilometri, tra le più grandi al mondo.
Signore e signori, vi presento il Monte Batur.
Come vi mostra bene il satellite di Google, il cono a due bocche del Batur è la punta di un iceberg fatto di magma anziché di ghiaccio. L'omonimo lago a forma di mezzaluna riempie una parte di caldera fino a un altro cono, il Monte Abang. A sud ovest della caldera c'è la montagna più alta, e più sacra, di Bali: il Monte Agung. Tutti questi vulcani sono ancora attivi, la più recente eruzione del Batur è stata nel 2000 e la verniciata nera sul suo fianco che vedrete nelle foto non è un'ombra, ma l'ultima colata di lava.
Ieri, dopo colazione, sono partita in motorino con Atik che conosce la zona perché una sua ex compagna di università, Ayu, abita lì vicino. Ottima scusa per una gita che non mi andava di fare da sola. Lungo la strada tra Penelokan e Kintamani si trovano molti punti dai quali scattare foto del panorama e ne abbiamo approfittato mentre aspettavamo Ayu. Quando è arrivata col suo sorriso simpatico e tutta chiusa nel suo giubbotto - e va bene che l'aria del mattino a 1700 metri è fresca, ma non così tanto - ci ha guidato giù per la strada che scende al lago. Ci siamo inoltrate in un paesaggio di blocchi di lava solidificata e rocce scagliate in aria dalle eruzioni del Batur, le più vecchie sepolte dalla vegetazione, ma molte ben visibili a ricordarmi dove mi trovavo.
Intorno al lago sorgono quindici villaggi, alcuni raggiungibili solo in barca, e ci siamo fermate a pranzare in un ristorante galleggiante, cioè con i tavoli su piattaforme di legno tenute a galla da bidoni vuoti, come le zattere dei naufraghi, ma saldamente ancorate l'una all'altra così non ho sofferto il mal di lago. La vista dall'interno della caldera è impressionante e le creste che le fanno da corona si moltiplicano nello specchio del lago. Vorrei essere una fotografa migliore, ma, come dico sempre, nulla sostituisce una visita di persona. Quando il vento ha cominciato a radunare qualche nube troppo scura sopra le nostre teste, ci siamo dirette a casa di Ayu.
L'attività vulcanica ha reso molto fertili i terreni circostanti e la zona è famosa per gli alberi da frutto, infatti, lungo le vie secondarie si trovano molte bancarelle di contadini che vendono i loro prodotti appena raccolti. Di nuovo, la mia fortuna di essere stata adottata da balinesi mi ha portata dove i turisti non pensano nemmeno di andare. La famiglia di Ayu ha giusto un frutteto che lei non vedeva l'ora di mostrarci. Camminando e chiacchierando tra mandarini, banane, guava e caffè, Ayu riempiva di frutta un grosso sacco giallo che, alla fine della passeggiata, abbiamo scoperto essere un regalo per Atik e me. Saranno stati dieci chili di mandarini, ma non contenta ha mandato un suo parente su un albero per raccoglierci anche qualche frutto di guava. Ed ecco come eravamo cariche lasciando Kintamani.
Una delle strade che tornano verso Ubud, passa per Tegalalang, un paesino celebre per la vista sulle risaie a terrazza più ripide dell'isola. Erano le due e mezza del pomeriggio, l'orario più indicato dai dermatologi per stare sotto il sole equatoriale senza protezione, e malgrado questo la strada e i sentieri che attraversavano i terrazzamenti traboccavano di turisti. Ci siamo fermate appena il tempo di scattare qualche foto e siamo fuggite a casa. Conviene andarci la mattina presto, segnatevelo.
Vi lascio al nuovo album e vado mangiarmi un mandarino perché bisogna pur smaltire 'sta frutta prima che il caldo la rovini, no?
Il post di oggi è un po' tecnico, mi perdoneranno i lettori in cerca d'avventura, ma sperando che sia utile ad altri viaggiatori, vi spiego in dettaglio cosa fare per rimanere in Indonesia sessanta giorni da turisti. Chiaramente, parlo della mia esperienza e le informazioni che troverete di seguito sono valide nel momento in cui scrivo, ma potrebbero subire variazioni nei prossimi mesi o anni, perciò cercate sempre conferme e aggiornamenti sui siti ufficiali. Seguite le indicazioni degli impiegati dell'ufficio immigrazione e non avrete problemi, a parte le lunghe attese, ma da italiani dovreste esserci abituati.
Leggendo
in rete della procedura per estendere il visto turistico indonesiano,
mi ero preparata a incontrare il demone della burocrazia, armandomi
di infinita pazienza. In realtà, forse ancora complice la bassa
stagione, è stato meno complicato di quanto pensassi. Le agenzie che offrono il servizio di rinnovo del visto, a pagamento ovviamente, sono abbastanza inutili secondo me: non sbrigano le pratiche al vostro posto, si limitano a farvi accompagnare e assistere da un loro impiegato, ma dovete comunque recarvi di persona all'ufficio immigrazione tutte le volte. Cominciamo, però, dal principio.
Quando ho cominciato a viaggiare ho scoperto la reale dimensione delle cose. Viste da casa, alcune sembrano più grandi, altre più piccole, poi le vedi, le incontri, le conosci e ti sorprendi di quanto fosse distorta la tua precedente visione. Perché si realizzi una scoperta, però, è necessario aprirsi a un luogo sconosciuto. E un luogo non è soltanto un dove, ma anche un come, un chi e un perché. È fatto di suoni, odori, colori, voci, sapori, panorami, persone, architetture, situazioni, animali, temperature, usanze, parole, piante, armonie e discrepanze. Tutto questo, e molto ancora, ci fa amare o detestare un luogo.
Secondo la mia idea di viaggio, non hai viaggiato se non torni con un po' di quel luogo addosso e dentro, se non ti sei lasciato un po' cambiare e non per forza in positivo perché puoi tornare arricchito, ma anche sentirti derubato di tempo e denaro. Non sto mitizzando il viaggiare, è un'esperienza e come ogni esperienza può farci bene o male, ma se non ci fa nulla, allora non l'abbiamo vissuta. Vi racconto tante cose belle, ma Bali non è il paradiso, è piena di problemi come ogni altro luogo al mondo. Io, però, cerco quello che ogni luogo ha da offrire di bello e spesso lo trovo.
stop ai cattivi
In questi giorni ho preso una stanza in affitto presso una famiglia balinese appena fuori dal centro di Ubud e quello che sto vivendo insieme a genitori e figlia è qualcosa che nessun albergo a cinque stelle potrebbe darmi.
Aggiungo qualche foto in fondo all'album di Ubud per mostrarvi la casa e gli eventi di questi giorni, ma sapete che ritrovate tutti gli album nella pagina foto de passacc, vero?
L'abitazione è di quelle tradizionali. Si accede attraverso un vialetto strettissimo e ci si trova davanti una statua con la mano alzata nel gesto di impedire l'accesso agli spiriti maligni che, secondo il mito, sanno camminare solo diritto e, trovandosi la via bloccata, sono costretti a retrocedere. Quelli benigni, invece, girano intorno alla statua ed entrano. All'interno, sembra di trovarsi in un villaggio di casette minuscole, a un solo piano, con i tetti di tegole alti e spioventi, ognuna rialzata di uno o due gradini, ognuna con una veranda e i pavimenti di piastrelle colorate. In realtà, le singole “casette” sono le stanze che compongono la casa e sono collegate da vialetti scoperti, lastricati e decorati. Se piove, insomma, si corre sotto l'acqua dalla cucina al salotto, dal bagno alla camera da letto. Un'area del cortile è destinata al tempio di famiglia dove si celebrano i rituali quotidiani, mentre per le preghiere comuni nei giorni di festa si va in quello di Monkey Forest.
scorcio di casa
La famiglia mi ha accolta con un calore e una gentilezza che vanno oltre il normale rapporto inquilino/padrone di casa. La figlia, Atik, parla un buon inglese e abbiamo chiacchierato, anche mentre mi accompagnava in motorino a Denpasar a ritirare il mio passaporto (evviva! Nel fine settimana pubblicherò un post con tutto l'iter) e, tra le altre cose, si è detta dispiaciuta perché alcuni clienti su internet hanno lasciato cattive recensioni perché la stanza è piccola e non offre i servizi di un hotel. Allora io mi chiedo perché non abbiano prenotato un hotel. Certo, è una sistemazione un po' spartana, ma l'ho scelta proprio per vivere "alla balinese", svantaggi compresi. In cambio, però, pago poco e guadagno in esperienza e affetto.
il nostro penjor
Mercoledì era la festa di Galungan, una delle tante ricorrenze religiose dell'isola, e nei giorni precedenti ho assistito ai preparativi in casa e dai vicini. Ogni famiglia costruisce un lungo palo ricurvo di bambù chiamato penjor al quale si appendono decorazioni fatte a mano con foglie fresche e secche intrecciate e piegate in forme geometriche, noci di cocco, spighe, riso, tutti prodotti della terra perché il penjor simboleggia la benedizione di Madre Natura. Se ne innalza uno davanti a ogni casa e così le strade si trasformano in gallerie d'arte dove ammirare creazioni tutte diverse. I turisti non sono ammessi all'interno dei templi se non vestiti adeguatamente con gli abiti tradizionali, così Atik mi ha prestato una sua camicia e un sarong - gonna tipo pareo però di tessuto più pesante - di sua madre che è un po' più alta, ma in compenso ho dovuto avvolgermelo intorno diverse volte perché troppo abbondante, sembravo un pacco regalo. Il padre mi ha detto di raccogliere i capelli così da poterci infilare dei fiori, ed eccomi pronta per uscire con loro. In quale albergo ti trattano così?
vestita a festa
Siamo arrivati al tempio grande di Monkey Forest tra alberi, macachi e turisti curiosi per il grande afflusso di fedeli, sorpresi di notare una donna occidentale che entrava assieme ai balinesi. Per rispetto, all'interno del tempio non ho scattato fotografie e mi sarei anche fermata fuori dal cortile più interno dove si tiene la preghiera comune, ma Atik ha insistito per farmi entrare: "Ci mettiamo in fondo e se vuoi ti spiego come pregare con noi." Che emozione! Il cortile traboccava di gente inginocchiata ognuno con il proprio cestino per il rituale, Atik e suo padre hanno condiviso il loro con me. All'inizio si accendono bastoncini d'incenso che si incastrano tra le pietre del selciato e ci si "lava le mani" nel fumo profumato che si leva lento nell'aria umida. Purificate le mani, si congiungono all'altezza della fronte, tenendo i gomiti larghi, e si mantiene questa posizione per qualche secondo, finché la campanella del mastro di cerimonia smette di suonare. Si ripete il gesto con un fiore tra le dita preso dal cestino. Poi ancora una volta tenendo una foglia di palma ripiegata a cono che contiene una moneta, fiori e foglie. Di nuovo con un altro fiore, e infine a mani vuote come all'inizio. Allora tutti si alzano e cominciano a defluire fuori dal tempio. La cerimonia in sé è abbastanza breve, meno di quindici minuti, considerato tutto il lavoro di preparazione dei giorni precedenti e la quantità di offerte portate al tempio per ingraziarsi gli dei, chili di frutta, riso e fiori da ogni famiglia.
mangia che sei sciupata!
In occasione del Galungan, lo zio ha ammazzato il maiale, un po' come da noi al sud, e ovviamente la mamma di Atik - perdonatemi, ma non ho ancora capito il suo nome - me ne ha offerto un po'. Le ho spiegato che non mangio carne, pesce, eccetera, e ho visto nei suoi occhi quel panico materno oddio, ma mangi abbastanza? Da allora, ogni volta che passa davanti alla mia camera, mi lascia un cesto di frutta e un thermos di acqua calda per farmi il caffè. Per non offenderla, mangio sempre tutto, ma ormai sono così piena di vitamine e caffeina che posso fare il Campuhan di corsa mattina e sera. Pian piano, poi, le sono venute in mente altre cose che posso mangiare: cracker, noccioline, gallette di riso, crostini e li aggiunge alla mia razione. Oggi mi ha portato una vaschetta di riso cotto in una specie di grappa, ora sono anche ubriaca! Tenete presente che nel prezzo della stanza sarebbe compresa soltanto la colazione, mentre ricevo almeno tre di questi "spuntini" al giorno.
Da
Ubud è facile fare belle passeggiate partendo a piedi dal proprio
alloggio. I vicoli periferici sfumano tutti in sentieri tra colline e risaie, bisogna solo ricordarsi cappello e ombrello perché la maggior parte sono esposti a sole e pioggia e potrebbe passare qualche chilometro prima di trovare un riparo.
Uno dei più famosi percorsi panoramici è il Campuhan che dai punti più alti offre una vista spettacolare sui dintorni verdissimi.
Prendendo
Jalan Raya Ubud, il viale sul quale si affaccia Ubud Palace, prima
del ponte sulla destra, c'è una strada secondaria che porta a Warwik
Ibah Villas. Poco dopo averla imboccata, ci si trova un bivio con un
altro cartello Ibah e in basso quello che indica a sinistra il
sentiero per le colline. Più avanti, c'è una scalinata in pietra
da scendere,anche lì troverete indicata la direzione da prendere.
Si costeggiano le mura del tempio Pura Gunung Lebah, tra l'altro molto bello, finché la strada comincia a salire.
Da
lì in poi è tutto solo da godere.
Alla
fine del sentiero vi troverete in quella che da noi chiameremmo una
frazione di Ubud. È una stradina sulla quale si affacciano botteghe
di pittori e scultori insieme a una manciata di piccoli locali dove
bere un succo rinfrescante e mangiare qualcosa. Il
più famoso è il Karsa Kafè, lo trovate spesso sui cartelli lungo la camminata. Bellissimo, per carità, ma si paga anche
la vista perciò è meglio sedersi in un altro e poi godersi il paesaggio passeggiando.
Il resto del panorama è costituito da qualche casa bassa tra le risaie e in ogni campo c'è il consueto mini tempio per le offerte agli dei.
Il Campuhan non è un percorso impegnativo se affrontato la mattina presto o nel tardo pomeriggio per evitare le ore con sole a picco sulla testa. Ancora più comodo,per voi, è seguirlo attraverso le foto nel nuovo album.
Venerdì mattina mi sono alzata presto e sono andata a fare una passeggiata al Sacred Monkey Forest Sanctuary e presentandomi all'apertura della biglietteria (ingresso circa 3,50€) mi sono assicurata almeno un'ora di pace prima dell'arrivo dei bus con i turisti. Ho lasciato la mia borsa alla cassiera per stare più comoda e mi sono incamminata con macchina fotografica e cellulare per i video.
Solo una parte della foresta è aperta al pubblico e bisogna rimanere sui percorsi indicati, sia per la sicurezza dei visitatori che per proteggere questo ambiente delicato dall'invadenza umana. Come vi ho detto, in questo splendido scorcio di giungla primitiva crescono centoquindici specie diverse di alberi, alcune delle quali molto rare, e piante particolari usate per i rituali religiosi. Innamorata come sono degli alberi, mi incanto a ogni passo anche se, tra un viaggio e l'altro, è già la terza volta che torno qui. Sarebbe bello che ogni foresta fosse considerata sacra e perciò protetta, al di là di ogni fede, sacra per l'umanità. Le foto possono darvi una minima idea della bellezza di questo luogo, ma non possono trasmettervi il profumo degli alberi e la sensazione che respirino e si nutrano dell'aria umida che abbraccia anche me mentre cammino. Il verde mi avvolge completamente, è dolce per gli occhi, rilassa i pensieri.
Tra alberi stupendi si srotolano sentieri, passerelle di legno, ponti di pietra e, più o meno nascoste dalla vegetazione, decine di statue coperte di muschio osservano il mio passaggio. Raffigurano animali, divinità, creature mitologiche e sembrano trovarsi lì da quando è nata la foresta. Mi guidano tra i tre templi, uno più grande e due minori, ma l'accesso è consentito soltanto ai fedeli durante le cerimonie.
Se guardate attentamente alcuni scatti, vedrete libellule rosse tra le foglie e riuscirete a scovare i macachi balinesi mimetizzati tra le ombre dei rami. I macachi di Monkey Forest non sono aggressivi con le persone, se non si cerca di toccarli o sottrargli il cibo, ma in quei casi divento aggressiva pure io. Bisogna evitare di guardarli direttamente negli occhi perché per loro è un gesto di sfida, come pure sorridere perché mostrare i denti significa minacciare. Insomma, siamo a casa loro e giustamente dobbiamo stare alle loro regole.
Il personale del parco è attento alla loro dieta perché, in quanto abitanti sacri dei templi, devono mantenersi in salute ed è vietatissimo dar loro noccioline o altre porcherie, solo frutta, patate, pannocchie. Ormai i branchi di scimmiette sono talmente abituati ai turisti che non sono nemmeno incuriositi dalla loro presenza, a meno che non si sventoli una banana diventando improvvisamente interessanti. Sanno in quali orari radunarsi intorno alla fontana per trovare uno spuntino nelle mani dei guardiani o dei visitatori, in cambio si lasciano fotografare.
Come raccontavo in un commento, una scimmietta mi si è aggrappata alla gamba mentre ne fotografavo un'altra - forse gelosa - e non sapevo come liberarmene senza irritarla. In tutta calma ho proseguito sul sentiero, passeggiando con un macaco abbracciato alla coscia finché ho incrociato un guardiano e gli ho chiesto come comportarmi. «Niente, continua a camminare, poi si stufa e scende da sola.»
A volte, escono dal parco per un giro in paese e li si vede attraversare la strada di corsa oppure fare i funamboli sui cavi elettrici, ma non si allontanano mai troppo. Tornano tra gli alberi e spariscono nel folto della foresta dove nessuno può seguirli. D'altra parte, con una foresta bellissima a disposizione, chi glielo fa fare di venire in città?
Che noia la città!
Due nuovi album per voi. Benvenuti al Sacred Monkey Forest Sanctuary.
Interrompo per un attimo le cronache del mio viaggio per annunciarvi un'iniziativa che mi vede collaborare con The Orangutan Project. Da oggi, per sei mesi, il 10% del ricavato dalle vendite di Di passaggio in Indonesia andrà a questa associazione per la protezione degli orangutan e del loro habitat.
Siccome la promozione coinvolge il mio alter ego di scrittrice, trovate maggiori informazioni nel post che ho pubblicato su Scritti a penna.
Intanto vi mostro una delle locandine che farò girare in rete (grazie a Gloria e alle sue colleghe per il supporto grafico) e vi raccomando di spargere la voce!
Oggi, insieme a un nuovo album fotografico che si allungherà nei prossimi giorni, vi descrivo un po' quello che mi circonda in questa nuova tappa del mio viaggio.
Per fuggire da Seminyak a Ubud, ho prenotato all'ultimo momento e mi sono accontentata dell'alloggio più economico disponibile.
Si chiama Arjuna Homestay e si trova in un vicolo tranquillo, ma a due minuti da Ubud Palace, cioè vicinissimo al mercato e alle vie principali, Monkey Forest e Hanoman. Comodo per chi,come me, deve spostarsi a piedi.
La stanza è molto spaziosa, ho perfino due letti. Dormo nel matrimoniale e uso il singolo come "armadio" perché l'armadio non c'è e l'arredamento finisce con un tavolino basso che funge da comodino.
Con il caldo equatoriale, spezzato soltanto da qualche acquazzone, non è facile prender sonno e il ventilatore sul soffitto ha soltanto una velocità: lumaca in salita su terreno accidentato.
Ho comunque un salottino all'aperto, ma riparato dalla pioggia, dove posso prendere un po' d'aria la sera, stendere il bucato e fare colazione perché la proprietaria, una simpatica vecchina, me la serve lì tutte le mattine. Il bagno non ha finestre così, quando faccio la doccia, il pavimento rimane bagnato per due giorni, anche perché le camere vengono pulite tra un cliente e l'altro, non è prevista pulizia giornaliera né settimanale. Come straccio, sto usando una delle mie canottiere che, a fine settimana, brucerò. C'è solo l'acqua fredda, ma tanto fa così caldo che esce comunque tiepida da doccia e lavandino. Non forniscono né asciugamani, tanto ho i miei, né carta igienica, ma Alison, la mia amica inglese che è una gran viaggiatrice, mi ha insegnato a rubarne da ogni bagno che mi capita di usare e infatti ho sempre qualche rotolo con me.
Nonostante tutto, non mi lamento perché per una settimana compresa la colazione (caffè, frutta fresca, pane tostato e marmellata) pago 70€, non al giorno, a settimana. Non sarà un alloggio di lusso, ma dopo aver sperimentato lo zero assoluto sette anni fa, dormendo in un sottoscala pieno di muffa e senza finestre a Medan, non mi spaventa più nulla. In fondo, il
mio sogno è andare a vivere nella giungla, non posso mica
formalizzarmi, sarebbe già tanto avere l'acqua corrente e
l'elettricità. Per la gioia di vivere in mezzo alla natura rinuncerei a qualsiasi cosa. Nel frattempo, però, mi trovo qui. Per la prossima settimana, quando potrò noleggiare un motorino perché tornerò in possesso del mio passaporto, ho trovato una sistemazione fuori città, dove preferisco stare.
In ogni caso sono felice di trovarmi a Ubud. Qui i turisti vengono per gite in giornata o un fine settimana perché non c'è il mare, oppure per fare yoga come il mio amico australiano Bodhi che arriverà l'8 aprile.
Ubud è una cittadina che io adoro per la sua particolare atmosfera e non è cambiata dalla prima volta che ci approdai nel 2010.
È il cuore artistico di Bali, mi stimola e mi ispira, in ogni via si trova qualcosa di interessante da osservare o da visitare, che sia la vetrina di un artigiano che confeziona maschere per le danze tradizionali oppure produce strumenti musicali, o ancora il mercato dove le sarte modificano gli abiti al momento e la frutta ha il profumo del sole.
Poi c'è il Sacred Monkey Forest Sanctuary (ho sempre dubbi sulla traduzione: santuario della foresta delle scimmie sacre o sacro santuario della foresta delle scimmie?). Insomma, dieci ettari di foresta protetta che comincia in fondo alla città. È un luogo famoso per le seicento scimmie, macachi, che abituate alla presenza dei turisti non si sottraggono agli obiettivi delle macchine fotografiche, ma è severamente vietato dar loro da mangiare qualsiasi cosa che non sia fornita dal personale del parco (patate dolci, banane, anguria) per mantenerle in salute in quanto predilette degli dei e inquiline dei tre templi nascosti nel fitto degli alberi. Gli alberi di Monkey Forest, che splendore! Centoquindici specie diverse, alcune molto rare. Ci torno questa mattina, in giornata aggiungerò le foto all'album e dico in giornata perché la connessione internet va alla stessa velocità del ventilatore.
Di Ubud e dell'alloggio super economico che ho trovato vi parlerò nei prossimi giorni.
Oggi vi racconto la grande festa di Nyepi che ho voluto seguire fin dai preparativi perché a me piace sbirciare dietro le quinte, scoprire come le cose accadono. Vi spiego un po' come funziona, ma le foto e i filmati vi saranno d'aiuto per comprendere la confusione nella quale mi sono ritrovata. La mia amica Laura descriverebbe la mia notte di lunedì con una sola parola: burdell! L'idea di Nyepi è appunto quella di fare più baccano possibile durante la notte per attirare il male sull'isola e poi farlo andar via per un anno con il successivo giorno del silenzio durante il quale è vietato uscire per la strada, accendere le luci e ascoltare musica.
È la prima volta che scrivo un post dal cellulare, non so come apparirà, ma è solo per avvisarvi che sono a Ubud (evviva) e ho trascorso il pomeriggio a seguire i preparativi per il capodanno lunare. Non so se domani, giorno del silenzio, ci sarà la connessione Internet. Male che vada ve lo racconterò mercoledì.
Intanto vediamo se riesco a caricare uno dei filmati girati oggi. Funziona?
No, non funziona.
Venerdì sono stata all'ufficio immigrazione di Denpasar per il secondo appuntamento (vi racconterò l'iter per bene, non appena ne sarò uscita) e, quando mi hanno consegnato la ricevuta con la data in cui finalmente mi restituiranno il mio passaporto, mi son passate per la mente imprecazioni in italiano, inglese e indonesiano: 4 aprile. Come 4 aprile? Altri dieci giorni d'attesa a Seminyak?
Sono tornata in albergo pensando a come migliorare la mia permanenza in un luogo che detesto, ripetendomi che c'è di peggio e aggrappandomi alla storia di risparmiare sul trasporto. Alla fine, però, ha prevalso una della voci nella mia testa che urlava: eh no, cara, di restare qui a deprimersi proprio non se ne parla!
Così domani me ne vado a Ubud e ve lo dico con un gran sorriso. Anziché in taxi, risparmierò in psicanalisi, e poi è solo per una volta. Prenotare il nuovo alloggio mi ha illuminato l'umore e per avere la stanza bastano la fotocopia del mio passaporto e la ricevuta dell'ufficio immigrazione. Per noleggiare un motorino, invece, dovrò aspettare di riavere il mio documento perché i poliziotti per la strada non vedono l'ora di fermare una turista con qualcosa fuori posto per pagarsi la colazione.
Non appena sarò in regola, vi porterò alla scoperta della parte migliore dell'isola, ma nel frattempo da Ubud partono anche bei sentieri da percorrere a piedi o in bicicletta. Mi manca il verde, il mio colore preferito, e l'interno di Bali è uno smeraldo, credetemi.
Scimmiette, scoiattoli e uccellini mi aspettano nei giardini, tra le risaie, e le case tipiche con sculture e decorazioni in pietra e legno, nei dintorni di piccoli templi dove ogni sera si può assistere alle danze che raccontano episodi della mitologia balinese. C'è anche uno dei mercati più belli che abbia mai visitato, se la gioca con i souk di Essaouira e Marrakech in Marocco.
E poi c'è Nyepi e sono felice di poterlo vivere in una cittadina famosa per l'arte e l'artigianato, so già che le maschere dei demoni saranno spettacolari.
Insomma, non vedendo la luce in fondo al tunnel, ho buttato giù la parete.
Ci vediamo dall'altra parte, compagni di viaggio.
P.s. Tanto per darmi il colpo di grazia: mi sono svegliata con la stanza allagata dal temporale di stanotte. La valigia e lo zaino erano sul pavimento perché non ho un armadio e quando li ho sollevati gocciolavano. Piove ancora e la roba che ho steso fuori sotto la tettoia se ne sta molle a compatire il mio ottimismo. Intanto, asciugo lo zaino del computer con il phon.
Ho proprio bisogno di imparare nuove lingue per imprecare.
La spiaggia di Seminyak è ampia e lunghissima, la sabbia è soffice sotto i piedi. Il mare, che poi è Oceano Indiano, è bello e l'acqua sempre tiepida.
Si formano onde adatte al surf, soprattutto al mattino presto, il resto della giornata è per le lezioni ai principianti e ce ne sono parecchi.
Fin qui, sembra tutto bellissimo (anche se sono foto da cellulare). Poi guardo la spiaggia e mi rendo conto di cosa porta la marea insieme alle onde da surfare.
Seminyak è un paesino per turisti. È bruttarello, affollato anche in bassa stagione, pieno di negozi, bar, ristoranti che comprendono svariate trattorie italiane (un italiano che mangia italiano all'estero dovrebbe essere perseguito penalmente), mini market aperti 24ore. Per strada si incontrano solo stranieri, le insegne e i menù sono in inglese, le bancarelle vendono magliette con la scritta I love Bali. La spiaggia è infestata di ombrelloni e chioschi dove i servono cocktail con l'ombrellino. Insieme a Legian e Kuta Beach, Seminyak forma la triade del turismo di massa balinese. Esattamente il genere di località che evito come la peste.
Allora perché mi trovo qui?
Perché è a soli trenta minuti dall'ufficio immigrazione di Denpasar e sto facendo le pratiche per il prolungamento del mio visto. Per i sette giorni lavorativi (minimo) necessari all'iter burocratico, ho scelto una sistemazione sul mare, ma dalla quale posso fare avanti e indietro senza spendere una follia in taxi. E dico “avanti e indietro” perché la procedura di rinnovo del visto sembra studiata dal più sadico dei burocrati, ma ve ne parlerò in un post dettagliato perché potrebbe essere utile ad altri viaggiatori.
Oggi, invece, voglio soffermarmi sul luogo dal quale non vedo l'ora di fuggire. Lo so, c'è di peggio e Seminyak evidentemente piace a migliaia di turisti, solo che io sono fatta in un altro modo. A me non interessano i negozi, preferisco i piccoli mercati locali; per me vita notturna sono i richiami degli animali nella foresta, non il rumore delle feste che durano fino all'alba; per me il mattino è un caffè con gli uccellini che cinguettano, non i clacson dei motorini; per me una spiaggia tropicale è semi deserta e devi portarti l'acqua da casa perché non c'è alcun bar nei dintorni e a Bali se ne trovano diverse – le avete conosciute nei miei viaggi precedenti – solo che bisogna allontanarsi dalle comodità per raggiungerle e i turisti sono pigri.
Sono venuta in Indonesia per stare in mezzo alla natura, ma devo accettare questo intermezzo cittadino cercandone i lati positivi. Non ho ancora esplorato granché, forse allontanandomi dal centro scoprirò qualche ristorante tipico e angoli più caratteristici. Tra una visita e l'altra all'ufficio immigrazione, vado in spiaggia, la mattina presto, quando c'è poca gente e, anche se da queste parti la stagione del surf comincerà in aprile, c'è già qualche appassionato in azione tra le onde e orde di ragazzini che prendono le loro prime lezioni. Oggi, però, non vi mostro le foto che ho scattato in spiaggia perché per commentarle ho bisogno di un post intero.
Ho scelto un alloggio economico, privo di qualsiasi fascino, ma in fondo devo soltanto dormirci. Scriverò ben poco perché in camera non ho nemmeno un tavolino, sto seduta sul letto col pc sulle gambe oppure seduta per terra col pc sul letto. Non si può fare per più di un'ora. La potenza del wifi è scarsa, non so se riuscirò a caricare un album fotografico dedicato a Seminyak, ma non so neanche se merita lo sforzo di portarmi dietro la macchina fotografica (finora ho usato il cellulare). Per i balinesi questa non è Bali, però anche questa è Bali, seppure una zona dell'isola che ho sempre evitato nei viaggi precedenti, e ve la racconterò come la vedo. Oltretutto mi tocca trascorre Nyepi qui, dove si trasformerà in uno spettacolo per turisti perdendo il suo significato spirituale. Oh quanto sono depressa!
Mi auguro che questi sette giorni lavorativi (minimo) passino in fretta e so che lo sperate anche voi per leggere cronache più interessanti e avventurose delle mie lamentele, ma ultimamente, tra scrittori, si discuteva di verità e questa è una parte della mia verità al momento.