Adoro
leggere avventure d'altri tempi, quando ogni viaggio era un'impresa e
c'era ancora tanto da scoprire.
Questo
libro, come altri di cui vi ho parlato, rientra proprio nella
categoria dei viaggi pionieristici, raccontando forse il primo giro
del mondo in motocicletta. Dico “forse” perché nemmeno il
protagonista è sicuro di essere il primo, ma nel 1932, quando parte,
non si aveva notizia di altri che avessero intrapreso un'avventura
simile.
Il
bello di One man caravan, come di ogni cronaca di viaggi
passati, sta nel gettare uno sguardo sul mondo com'era allora. A quel
tempo, Africa e Asia erano frammentate in colonie europee e i confini
disegnati a tavolino non corrispondevano a quelli riconosciuti da
etnie, tribù, usi e costumi molto più antichi. È interessante vedere,
attraverso gli occhi dell'autore, il mondo di ottanta anni fa, quando
la Thailandia si chiamava Siam e l'Indonesia era le Indie Orientali
Olandesi.
Fulton, ventitreenne americano, parte in moto da Londra e si dirige a Oriente come un moderno Marco Polo con l'obiettivo di raggiungere New York. Parte quasi per caso: per far colpo su una ragazza londinese durante una cena, annuncia di voler fare il giro del mondo in motocicletta e, alla fine, gli tocca mantenere la parola. Parte quindi all'avventura, con in testa le
immagini di luoghi descritti nei libri, con gli occhi di un
giovane curioso e con una certa predisposizione a cacciarsi nei
guai. Finisce in galera innumerevoli volte e se gli dicono di evitare
una zona, state certi che farà rotta proprio là.
Descrive
un Medio Oriente selvaggio e dalla tradizioni bizzarre, ma
assolutamente affascinante:
Nella corte, rischiarata dalle lanterne, ferveva una grande attività. Sulle mura si rincorrevano, in una danza indiavolata, le ombre di uomini e animali. I vecchi patriarchi dai capelli grigi come i bimbetti di pochi anni non concepivano altro tetto che le stelle. Erano gli arabi erranti […] Poco più che nomadi, nutrono un profondo disprezzo per chi dimora in paesi e città, e ancora oggi il loro motto è “solo il somaro vive al riparo”.
Incosciente,
ottimista, coraggioso e salvato dall'ironia e dallo spirito di
adattamento, l'intrepido americano affronta il suo
viaggio con grande rispetto per le culture che incontra. Non parla solo di sé, ma racconta la storia del luogo come l'ha letta o come l'ha sentita dagli abitanti, leggende comprese. È
affascinato da paesaggi e tradizioni tanto lontane dal suo
quotidiano, riconosce la sua ignoranza e impara da ogni disavventura.
Non è sempre sorridente perché non tutto fila liscio, ovviamente,
così parla delle sue paure e in qualche occasione s'incazza pure.
Come
Agatha Christie, al seguito del marito archeologo in Siria, accettava
di dormire tra i topi, Fulton non si fa problemi a rinunciare alle
comodità, si adatta senza protestare perché sa di essere ospite “in
casa altrui” e nelle mani di un destino imprevedibile.
Come
ho avuto modo di constatare durante le mie escursioni in altri
continenti, quasi sempre l'idea che si ha della propria meta si
rivela molto diversa dalla realtà: nel nostro immaginario, certi
luoghi prendono forma da ciò che sentiamo e leggiamo in proposito,
caricandoci di pregiudizi e stereotipi, accade a tutti. Alla
frontiera tra India e Afghanistan, Fulton conversa con un pashtun che
gli dice:
“Anch'io voglio andare in America, voglio andare a New York e Hollywood.”“Hollywood? Ma ci sono posti molto più interessanti di New York e Hollywood. Per esempio...”“Ah no, no!” mi interruppe lui. “A Chicago non ci vado di sicuro. Ci tengo a rivedere l'India prima di morire!”
Mi
è piaciuto tanto leggere le sue descrizioni di mete che ho visitato
anch'io e scoprire come, ad esempio, le usanze dei Batak sul lago
Toba a Sumatra non siano cambiate poi molto, mentre sono rimasta
impressionata dal suo passaggio nei pressi del Krakatoa quando naviga
verso Giava:
Quella notte attraversammo lo stretto della Sonda e la nave passò vicino al famoso Krakatoa. Fino al 1883 il Krakatoa era un vulcano che sorgeva dal mare. Ma in quell'anno una violenta eruzione lo ridusse in cenere e il vulcano continuò la sua attività sotto la superficie marina. Oggi i gas risalgono per decine di metri e, quando raggiungono la superficie, esplodono in potenti fiammate. È uno spettacolo davvero singolare quell'incendio notturno che scaturisce dalle profondità dell'oceano.
Appena
ottanta anni prima che io ci mettessi piede, il Krakatoa era sommerso
e lanciava fiammate tra le onde. Io, nel 2013, ci sono sbarcata e
l'ho scalato fino a metà dei suoi oltre 800 metri! L'isola è
cresciuta, e continua a crescere, a una velocità spaventosa.
Il
nostro pianeta è vivo e in continua trasformazione, che sia opera
della natura o dell'uomo, i paesaggi mutano, i confini si spostano,
le usanze si mescolano e si evolvono, si dimenticano, si perdono e
vengono ritrovate.
Viaggiare
ci rivela la vera natura del nostro mondo e per questo, anche oggi
che tutto sembra a portata di mano e di mouse, vale la pena di
partire per scoprire come stanno davvero le cose dall'altra parte
dell'oceano. Non vedo l'ora di prendere il prossimo aereo!
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