Gli
abiti da escursione nella giungla non servono più e sono
accartocciati in un sacchetto in fondo alla valigia insieme a fango,
sudore e bei ricordi, perciò la prima giornata a Ubud comincia con
una tappa in lavanderia. Svoltato l'angolo del nostro vicolo ce n'è
una piccina all'interno di un cortile dove ci pesano la biancheria e
paghiamo meno di 50 centesimi al chilo per averla lavata e stirata la
sera stessa. Ci torneremo a turno nei giorni successivi e per lo
stato pietoso dei nostri indumenti, già immaginiamo di venir
soprannominate “le zozzone”, ma avremo le valigie più ordinate e
profumate del volo di ritorno.
Indossati
sandali e canotte, ci dirigiamo al famoso mercato di Ubud. Il cuore è
un edificio in muratura con portici e balconate aperti su un cortile
centrale, ma le bancarelle si estendendo anche al di fuori, invadendo
i vicoli di tutto il quartiere con merci colorate, odori e voci. Qui
comincia la nostra ricerca dell'atmosfera tipica balinese ed è tra
oggetti d'artigianato, tessuti leggeri, pacchianate per turisti e
cibi esotici che ci inoltriamo in questo labirinto affollato come un
formicaio, emergendo di tanto in tanto in una via laterale per
riprendere fiato.
La
Fra cerca un completo per la nipotina, Sonia souvenir
per gli amici, Feddi ha il buono che le regalai al compleanno di
qualche anno fa da spendere in quel mercato che valeva da promessa di
venire un giorno a Bali con me, io guardo utensili da cucina in legno
per la nuova casa che mi attende a luglio. Qui bisogna contrattare,
lo impone la tradizione, e l'esperienza mi ha insegnato che il valore
reale di un oggetto è meno della metà del prezzo iniziale. Se da un
lato i mercanti si guadagnano la giornata con i turisti giapponesi
che pagano senza batter ciglio, dall'altro si divertono a ribattere a
quattro brianzole che non cedono fino al giusto prezzo. All'inizio,
per noi che non siamo abituate a mercanteggiare, è imbarazzante
chiedere uno sconto per qualcosa che costa già poco rispetto ai
nostri standard, ma questa è l'usanza del luogo e, dopo un paio di
acquisti, ci si appassiona al gioco: il venditore spara così alto
che non ci crede nemmeno lui, scrivendo la cifra su una calcolatrice
che poi passa al cliente, io ci scrivo un terzo e il venditore fa la
sceneggiata del disperato che va in rovina, ma si vede che gli viene
un po' da ridere, e abbassa un poco il prezzo così io alzo un poco
la mia offerta; lo facciamo due o tre volte, sempre sorridendo, poi
ci accordiamo per la metà di quanto richiesto e siamo entrambi
contenti.
In questo modo, tra il mercato e i negozietti nei dintorni,
abbiamo comprato: due camicie per mio fratello (la vera sfida è
stata trovare la sua taglia, impensabile per la media asiatica), una
ciotola e un'insalatiera per la mia nuova cucina, una borsetta per la
Fra, una camicetta per sua nipote, un paio di pantaloni bellissimi
per la Feddi, calamite per gli amici di Sonia, pantaloni, gonna e
abito per me, anelli di legno dipinto per Sonia e da regalare,
maglietta per il fidanzato della Fra e borsetta per la mamma, un
granchio e un gatto di latta – che fanno sia da porta candele che
portafoto e mi domando se le foto non prendano fuoco... – e,
infine, un pezzo di radice di zenzero che mi serviva da masticare
durante il volo di ritorno perché è un ottimo rimedio al mal
d'aereo. Non so se per le pillole di antimalarico per il Borneo o per
la carenza di vitamina B12 (dimentico sistematicamente di prendere
l'integratore), il sacchettino continuava a cadermi di mano spargendo
pezzi di zenzero ovunque e la signora del banco frutta e verdura me
l'ha cambiato tre volte facendogli un nodo sempre più stretto,
sembravo ubriaca e più mi rendevo ridicola più ridevo e non
riuscivo a raccogliere i pezzi, alla fine mezzo mercato rideva di me.
Far compere è stato divertente e un mercato, ovunque nel mondo, è
sempre interessante da osservare perché i visitatori si mescolano
alla quotidianità degli abitanti del posto, ma dopo un po' il rumore
di tante voci e il caldo immobile, compresso tra le bancarelle, ci
fanno scappare.
Orientarsi
nel centro di Ubud è semplicissimo: ci sono due vie principali che
corrono parallele, Monkey Forest e Hanoman, e percorrendole in salita
sbucano su viale Raya Ubud dove comincia il mercato, mentre in
discesa finiscono nel santuario di Monkey Forest, tutte le altre
strade o vicoli incrociano queste o partono da queste per finire
nelle risaie. La Fra impara subito e guida il gruppo giù per quella
che chiamiamo “scorciatoia”, anche se in realtà non abbrevia il
percorso, dove ci sediamo a bere qualcosa di fresco: un bel cocco per
esempio.
Passeggiando,
si scorgono scorci della vecchia Ubud nascosti tra un hotel e un
negozio, tra una gelateria – con la scritta vero gelato italiano –
e un ufficio di cambio. Come piantine che crescono nelle crepe
dell'asfalto, resistono all'invasione turistica l'ingresso di un
tempio o di una casa tradizionale e si incontrano negozianti e
ristoratori che lasciano cestini di offerte davanti a statue ornate
di fiori, abbandonando i clienti per qualche minuto e dedicarsi ai
propri riti, alla propria spiritualità, alla propria vita che non è
soltanto vendere merci e servizi ai turisti.
Bali
è anche l'isola dei cani randagi. Se ne vedono ovunque, più o meno
in salute, e Feddi li fotografa tutti, dopo averli accarezzati. C'è
un'associazione di volontari che si prende cura dei randagi e degli
altri animali dell'isola, fornendo cure veterinarie e
sterilizzazioni, sfamando cani e gatti di strada, vaccinandoli contro
la rabbia e provando a trovargli una casa, chiedendo leggi che
tutelino gli animali e istruendo gli alunni nelle scuole sui diritti
di ogni creatura: si chiama BAWA, Bali Animal Welfare Association.
Visitiamo il negozio con cui si finanziano ed è qui che facciamo gli
acquisti più importanti. Sonia compra pasti e cure veterinarie, io
lascio una donazione e mi porto a casa due belle tazze, la Fra infila
banconote nella cassetta delle offerte e Feddi dona l'intero budget
dei souvenir per gli amici – che condividono il suo amore per gli
animali – sorprendendo la volontaria dietro il banco. Traduco per
lei alcune domande sulle attività dell'associazione perché, d'altra
parte, sono colleghe e già spunta l'idea di tornare a Bali per
qualche settimana di volontariato che in questa parte di mondo ha
ancora molta strada da fare e tutta in salita. Questa è un'isola
piena di contraddizioni, anche riguardo i diritti degli animali: qui
le scimmie che vivono nei templi sono sacre e ricevono un'infinità
di cure, mentre lo zibetto – piccolo mammifero notturno diffuso
nelle zone tropicali di Asia e Africa – viene tenuto in catene ed
esibito anche al mercato perché con le bacche raccolte dai suoi
escrementi si produce il Kopi Luwak, un caffè raro e costoso proprio
perché ottenuto con questa pratica assurda. Anticamente si
raccoglievano i semi di caffè dagli escrementi dello zibetto
selvatico, ora si tiene in gabbia per produrne e venderne in maggiori
quantità e i turisti vanno matti per questa specialità.
Noi,
invece, abbiamo eletto a nostro ristorantino preferito il minuscolo –
quattro tavoli – Pumpkin & Beetroot: specialità vegetariane e
vegane. L'abbiamo scoperto per caso la prima sera, mentre cercavamo
di allontanarci dalle vie più trafficate, ed è rimasto in cima alla
classifica di Ubud perché ci siamo tornate spesso, anche dopo averne
provati altri (di uno in particolare vi parlerò nei prossimi post).
Ogni volta, abbiamo ordinato piatti diversi per scambiarceli e
assaggiare tutto e non siamo mai rimaste deluse. Il personale è
gentile e sorridente e tutto viene cucinato al momento, bisogna
quindi pazientare per l'attesa, ma ne vale la pena. L'ambiente è
pulito e tranquillo, alle pareti ci sono bellissimi affreschi con
alberi e uccelli colorati e qui ci siamo concesse le prime birre
della vacanza.
Per
adesso mi fermo qui e vi regalo le prime foto di Ubud, ma la storia è
appena cominciata.
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